1^ MOSSA sulla Scacchiera

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Distinsi appena le pedine che sembravano fissarsi in cagnesco, perché un velo nero mi calò sugli occhi. Mi sentii come se ogni cellula del mio corpo passasse per un colino e cadesse lontano ma, nello stesso tempo, anche come se non mi fossi spostato di un millimetro dalla mia stanza.
Quando riaprii gli occhi riuscii a distinguere poco, solo strane sfumature grigie. Ero stordito e confuso. Sbattei le palpebre e scrollai il capo per cercare di scuotermi dalla pesantezza che m'avvolgeva. Ma ci guadagnai solo un giramento di testa e lo stomaco sottosopra.
Ero sdraiato su una superficie fredda e dura, con le mani lungo i fianchi, in una posizione simile a quella di un morto in una bara. Appena girai la testa ebbi l'impressione di essere stato infilato in un forno formato gigante. I capelli mi si drizzarono e feci per alzarmi di scatto ma sbattei la testa contro la pietra.
A tentoni, imprecando per il male rimediato con la zuccata, riuscii a uscire dall'angusto spazio in cui mi trovavo e i miei piedi piombarono su una superficie fredda e liscia, invece che sulla moquette della mia stanza. Aggrottai la fronte. Che cos'era successo? Dove mi trovavo?
Sentivo la testa vuota come un palloncino che galleggiava a mezz'aria, e per qualche istante ebbi persino difficoltà a restare in piedi. Forse avevo mangiato qualcosa che m'aveva fatto male. Forse era un incubo. Non riuscivo a concentrarmi su nessun pensiero. Come se avessi bevuto troppo, barcollai mentre tentavo di stare in piedi nella mezza oscurità di quel dannato posto. Non ricordavo esattamente che cosa stessi facendo prima di svegliarmi lì, ma riconobbi il suono denso di una campana, che sembrava provenire da non molto lontano e attraversare la pietra. L'avevo già sentito.
Cercando di combattere contro il freddo, feci un passo avanti e con uno sfrigolio una luce improvvisa di due torce mi abbagliò. Illuminavano la piccola stanza ottagonale in cui mi trovavo e mi resi conto che ero appena sceso da una specie di catafalco di pietra, corredato di un bel cuscino di pietra, coperte di pietra accuratamente decorate e una specie di basso baldacchino di pietra. Quello su cui avevo sbattuto la mia testaccia dura.
Mi massaggiai il punto in cui avevo picchiato, rabbrividii e feci un passo indietro, per allontanarmi dalla gelida costruzione che aveva tutto l'aspetto funereo di una tomba. Ma nello stato in cui ero, non mi accorsi di uno scalino alle mie spalle e stramazzai a terra, tra le due fiamme che vacillarono, crepitando.
Il crepitio si mescolò a un bisbiglio vago; parole confuse, rabbiose e dolci insieme mi si affollarono dolorosamente in testa. Dovevo uscire di lì! Mi trascinai fuori, corsi, incespicai e avrei giurato che l'eco di quelle voci andasse aumentando e mi seguisse ostinatamente.
Come una maledizione. Quello era solo l'inizio.

La vecchia lanciò un grido e si lasciò cadere a terra, coprendosi la testa con le mani.
Abbacinato dalla luce del sole, dovetti sbattere le palpebre diverse volte prima di accorgermi di lei e prendere coscienza del luogo dove mi trovavo. Ero in una radura erbosa in mezzo a un bosco. Mi tolsi le mani dalle orecchie: le voci non mi avevano seguito.
Lentamente il tipo confuso e spaventato che si era svegliato sul catafalco e Ryan Kasalevic tornarono a essere una sola persona.
Mi raddrizzai e squadrai la donna. Poi mi voltai.
Dietro di me non c'era nessuno, solo l'ingresso del tumulo da cui provenivo. Rabbrividii ancora, intirizzito dal freddo glaciale di quel posto; i miei piedi gelati calpestavano l'erba umida del prato invece della moquette di camera mia.
La mia casa era scomparsa.
L'aria era fresca e pungente e sulle montagne, in lontananza, si squarciavano lentamente dense nubi.
Richiusi la bocca spalancata per lo stupore e mi voltai verso la donna; era vestita con una tunica scarlatta dalle maniche ampie e i capelli castani striati di bianco erano raccolti sulla nuca con un pettine nero dalla forma strana. Se era un sogno dovevo riconoscere di aver fatto davvero le cose in grande stile.
La figura scarlatta rimase immobile, anche quando, con passo incerto, mi avvicinai. Mi sembrava di essere rimasto fermo per secoli, e mi sentivo rigido come se qualcuno si fosse preso il disturbo di inamidarmi le articolazioni.
Anche le mie corde vocali sembravano inamidate tanto che, appena cercai di parlare, dalla mia bocca uscì solo un sibilo graffiante, come un unghiata contro un vetro. Mi zittii e la donna mi lanciò una sbirciata di sottecchi, poi si decise a sollevare la schiena. Rimasi stupefatto. Il suo volto era una delle più maestose distese di rughe che avessi mai visto, e i suoi occhi neri erano due pozzi profondamente incassati tra sopracciglia sottili e zigomi alti. Aveva il viso grande e squadrato, e il naso a punta faceva strada a un'occhiata circospetta.
Aniji te'n hai. Aniji te kon, ataknei – disse con un tono di voce rispettoso, ma poi, come se fosse stata colta improvvisamente dalla diffidenza, aggiunse – Enka tag...tag Aniji?
Io aprii la bocca e la richiusi. Con espressione sinceramente sofferente provai a farle intendere che non avevo capito nulla di quello che aveva detto. Emisi solo dei rantolii raschianti, ma lei comprese ugualmente che qualcosa non andava e si alzò in piedi.
Era molto più bassa di me.
Chinò la testa in direzione di una colonnina di pietra e mi fece cenno di bere dalla ciotola di legno intarsiato che vi era appoggiata.
L'accontentai. Avevo la gola secca.
Ingurgitai un paio di sorsi d'acqua e scoprii troppo tardi che non era acqua ma un intruglio dal sapore orribile. Sputai il secondo sorso quasi addosso a lei, tossendo.
La vecchia non si mosse di un passo, fissandomi con le sopracciglia sollevate, e nell'istante in cui cercavo di strepitare qualcosa tipo: – Che diavolo mi hai dato!? –, qualcun altro raggiunse correndo la radura.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 18, 2015 ⏰

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