capitolo 1

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Scivolai piano via dal letto, solo il fruscio del mio corpo sotto le lenzuola animava il silenzio, il tessuto si allungava e si ritraeva come onde di primo mattino, che si insediano piano tra i sassi e si dissolvono nella sabbia. Restai qualche minuto in piedi di fianco al letto ad osservare nella penombra quella figura scura, raggomitolata su se stessa, con il viso nascosto tra le braccia e il cuscino. Nell'oscurità brillavano solo i suoi artigli e i suoi denti, ancora contorti in quel ghigno che non lo abbandonava neppure nel sonno, anche se in quel momento appariva quasi innocuo. La puzza di sigari mista ad alcool e droga impregnava l'aria come liquore versato nel pandispagna, era così forte che le tempie iniziarono a pulsarmi tanto da aver paura che esplodessero. Abbassai lo sguardo e posai gli occhi su una siringa rotta sul pavimento, sospirai, avrei dovuto restare pulito, c'ero riuscito per un po' e adesso per una sciocchezza, per un momento di fottutissima debolezza, si era azzerato tutto. "Tanto non me ne frega un cazzo" pensai tra me e me, infondo quella della redenzione era tutta una cazzata. Ispirai, come a incoraggiarmi ad andare avanti e voltandomi mossi un paio di passi verso lo specchio: la prima cosa che vidi, ancora prima del mio riflesso fu un taglio profondo sulla guancia, non sanguinava più, ma era ancora rosso come le fiamme dell'inferno e la pelle sembrava cercare una via per rimaginarsi a suo modo, come vegetazione che serpeggia tra l'asfalto. Toccai la pelle attorno un po' con le dita, la ferita era un po' curva e ancora aperta, appena la sfiorai dovetti ritrarre velocemente la mano e trattenere un sospiro di dolore. Pulsava, sembrava essere viva, avere un suo movimento, un suo battito e un suo respiro, forse anche lei era solo dormiente. Mi sentivo quasi stregato dalla sua forma e dal suo colore, simile a quello di un bacca avvelenata, era come osservare i giochi e i disgeni delle fiamme e restare ipnotizzati da loro. Distolsi lo sguardo, risvegliandomi da quella trans, da quel minuscolo universo dove eravamo solo io e quello squarcio e ci travasavamo l'uno nell'altro, quando le lancette dell'orologio scoccarono. Osservai l'ora nello specchio, erano le sei del mattino, dovevo fare in fretta, dovevo uscire da quella stanza il più presto possibile e rientrare all'hotel prima che si svegliassero tutti. Raccolsi i miei guanti dal ripiano sotto lo specchio e li indossai delicatamente, poi versai un po' di struccante su un fazzoletto per togliere da sotto gli occhi la matita nera, sbavata dopo la notte.

"Dovrei riuscire ad arrivare abbastanza presto per poter restare un po' in camera mia a coccolare nuggsie" pensai, e spontaneamente sbocciò sul mio viso un sorriso sornione, le mie labbra si stavano ancora schiudendo e allargando, quando quella voce aspra e sprezzante stroncò ogni possibile immagine di 'primavera': "Angel".
I muscoli mi si irriggidirono di colpo, sentii il battito mancare, un brivido mi percorse dalla punta dei capelli fino alla pianta dei piedi, quelle sillabe risuonarono così irreali che mi sembrò di essere assorbito da ogni loro suono, come da un buco nero.
"Dove stai andando?" sibilò.
Mi voltai e sforzando un sorriso risposi:"Devo tornare all'hotel prima che si accorgano che sono uscito."
"E saresti uscito senza salutare?"
"N-no io ecco..." mi massaggiai la nuca in cerca delle parole da usare: "Ti avrei lasciato un biglietto"
"Angel" sospirò strisciando via da sotto le coperte.
"S-sì"
"Non hai imparato niente dalla lezione di ieri sera?" si avvicinò e mi cinse i fianchi, girandomi nuovamente verso lo specchio.
Quel tocco fu spaventoso, sembrò attraversarmi il costato da parte a parte, come un proiettile. Per quanto le sue mani fossero calde a me sembrò un tocco ghiacciato, spettrale, morto, privo persino del calore più elementare del sangue.
"Angel lo vedi questo?" Annuii "Ho chiesto io che te lo facessero. Perché tu ti possa sempre ricordare che cosa succede se provi a disubbidirmi."
Mi si riempirono gli occhi di lacrime, ma la paura o forse l'adrenalina, le ghiacciò lì nella sclera, nelle pupille e nelle iridi, si cristallizzarono e poi come marea si dissolsero.
Valentino mi prese il mento e mi voltò, portandomi di fronte a sé.
"Oh Angelcakes" mi prese il viso tra le mani: "Mi dispiace veramente tanto." poi mi lasciò: "Ma tu sei disubbidiente, mi costringi a farlo! Io sono l'unica persona a cui importa di te e tu continui a rivoltarti a me"
"Tu credi che a loro freghi qualcosa di te? Non capisci che siamo all'inferno e tu sei solo un travestito, una puttana con un bel faccino o almeno... una volta, per loro non sarai mai nulla di più di un giocattolo, un oggetto per il proprio piacere personale."
"E ora" disse allontanandosi, "prendi i tuoi vestiti da troia e vattene, ma mi raccomando sii puntuale domani e se dovessi chiamarti senza preavviso per qualche cliente dell'ultimo minuto non osare non rispondermi. E ricordati che se farai ancora scenate come quella di ieri non avrò più pietà."
Mi chinai e mi mossi a tentoni nel buio in cerca dei miei vestiti. Era così surreale quel momento, che forse dopo avrei pensato che fosse stato solo un sogno. Le mie pupille guizzavano da una parte all'altra della sclera, continuamente distratte da stimoli, voci, rumori, versi, non riuscivo più a concentrarmi su ciò che stavo facendo. Ero come la preda inseguita dal branco. Sentii solo un colpo secco, come un sasso che cade nel pozzo, mi colpì il petto e una voragine da lì, nel mezzo tra la conca dove le due scapole si incontrano e l'ombelico, si diramò per tutto il mio corpo, fagocitando ogni cosa. Mancò un battito, un respiro si spezzò e persino i miei capelli smisero di crescere, le mie palpebre di sbattere, il mio sangue di scorrere e le mie cellule di nascere e morire (sempre che tutte queste cose all'inferno avvengano).
Appena riuscii trovare i miei abiti li indossai velocemente raggomitolato a terra, infilai il papillon distrattamente in mezzo al pelo del petto e mi alzai, mantenendo solo la testa china, nulla mi sarebbe costato di più che camminare a testa alta in quel momento. Mi avviai verso la porta ma appena posai la mano sulla maniglia la sua voce, come tentacoli taglienti, mi avvolse di nuovo nella sua morsa soffocante: "Alla fine quasi ti dona, sembri un pirata" commentò ridendo.

Chiusi la porta dietro di me e avvertii un grumo umido e duro nascere nel mio petto e germogliare nella trachea, per poi fermarsi in gola e sbocciare in un fiore velenoso, o forse un'erbaccia, che si arrampicava dentro di me avvolgendomi nelle sue spire e succhiando tutto ciò che ancora c'era di vivo in me. Con i suoi stami affilati o le sue spine irritanti mi pungeva gli occhi, facendo scivolare sul mio viso, di cui si era ormai appropriato facendone i suoi petali,  la sua rugiada.
Mossi un passo dietro l'altro, i miei piedi si seguivano senza toccarsi, non mi sembrò mai così difficile camminare, i miei piedi erano sempre più pesanti e ad ogni passo era sempre più difficile sollevarli, quasi avessi messo radici in quell'appartamento, in quell'uomo o chissà che non fosse stato lui a piantare le sue in me, costringendomi a quel legame eterno.
Le radici, infondo, possiedono il terreno che si trovano attorno, insediandosi tra i suoi granelli, modificandolo a loro piacimento, non cercano stabilità nel terreno ma linfa da prosciugare.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 27, 2024 ⏰

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