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— ESME —

Mi sentivo spesso malinconica e sola. Il mio subconscio mi convinceva di questo, anche quando stavo ridendo e chiacchierando in compagnia di amici. Era un effetto domino, con origini davvero profonde.

Ho cominciato a soli dodici anni a non considerarmi abbastanza per gli altri. Da quando mio padre ha deciso di non prendersi più cura di me.

Mi diceva che ora ero abbastanza grande per cavarmela, che potevo far ciò che volevo perché non gli importava.

Ogni volta che capitava mi sentivo un peso per lui. Per questo, un giorno decisi persino di scappare di casa.
Mi accolse la famiglia di May per un po' o almeno...fino a quando Felipe non si ricordò di me e venne a prendermi.

Me ne disse di tutti i colori dopo quell'episodio, ma non sfiorò.
Non era un uomo violento, ma con le parole sapeva ferirti e farti provare un insopportabile senso di colpa capace di spiegarti a pensare che fossi tu il problema di tutto.

Gli anni a venire furono tutti uguali, fino a quando non arrivai alle superiori e mi accorsi che l'inferno non era neanche minimamente ciò che avevo passato. Era molto peggio e cruento.

I ragazzi squadravano noi ragazze da capo a piedi con viscidi sorrisi sulle labbra e pensavano solamente al sesso. Una mia compagna è stata la prima vittima.

Io ad ogni giorno che passava, sentivo di più i loro sguardi su di me, mantre le altre venivano rovinate. Poi, quando fu il mio turno (circa un anno dopo)...sentii qualunque di lui. Il suo sangue, le sue vene, la sua lingua.

Sembrava veramente di essere in un incubo da svegli e l'unica cosa che riuscii a fare è stata pregare che me la cavassi. Ero paralizzata e troppo impaurita per muovermi.

*

Entrai in casa e posai la borsa, lanciandola sul divano e andai dritta in cucina.
Aprii il frizzer, prendendomi una vaschetta di gelato e un cucchiaio, quindi mi accomodai sullo sgabello dell'isola e annegai il mio dolore nel verde del mio gusto preferito. Il ciocco-menta.

Mi piaceva perché quel tocco croccante e leggermente amaro dato dal cioccolato, abbinato al pungente aroma di menta erano il connubio perfetto per rappresentare la mia vita. Poi...richiamava un po' il colore dei miei occhi, l'unica parte di me che apprezzavo davvero.

Pensai di guardare qualcosa in TV, ma fu sicura di non trovare nulla abbastanza interessante quindi rinunciai. Imboccai un altro paio di cucchiai e venni raggiunta dalla mia piccola palla di pelo.

Micky si avvicinò mugolando, triste, come se persino lui percepisse il mio umore. Lo carezzai dalla testa alla coda delicatamente e lui mi guardò con i suoi grandi occhi d'ambra con un nuovo miagolio che sembrò sussurrarmi "Tranquilla Esme, ci sono io con te".

Sospirai, spostai il gelato e presi Micky così da sistemarlo ancora più vicino. Continuai a coccolarlo e mi alzai un momento per recuperare il telefono. Tentai a chiamare May, ma non rispose così feci per mandarle un messaggio, ma mi batté sul tempo.

Scusa, sono in laboratorio. Ti chiamo dopo, promesso -

Un nodo mi invase la gola.
Misi giù il cellulare e lasciai Micky sul suo cuscino.

Andai poi alla credenza e presi un coltello ben affilato. Senza ripensamenti e ritegno, mi tagliai.

Reprimei un urlo, che poi si trasformò in un gemito di piacere. Ripetei a me stessa che ciò avrebbe aiutato a dimenticare.

Lascai, senza preoccuparmene minimamente, che il sangue rosso vivido scorresse indisturbato lungo l'intero avambraccio.
Ne assaggiai una goccia, era dolce ma anche amara...come la mia anima.

Dopo un po' controllai l'orologio appeso alla parete, erano le 18:30.
In fretta e furia lavai il coltello, procurandomi un altro piccolo taglio all'indice. Pochi minuti e la porta d'ingresso scricchiolò, preannunciando l'arrivo di mio padre che se mi avesse vista in quello stato, mi avrebbe strangolato.

Mi adagiai dunque sul divano, accanto a Micky che riprese a farmi le fusa mentre io fingevo di limarmi le unghie nonostante non avessi nemmeno un utensile in mano.

Felipe poggiò il marsupio alla sedia dal tavolo da pranzo e poi venne da me. Lo salutai con la mano, non insanguinata, fingendo innocenza. Lui però mi scoprì.
«Esme. Non dirmi che hai ricominciato.»

Il suo sguardo passò dal mio viso al braccio ancora sporco. Non ero riuscita a pulirlo per bene prima, ma non credevo si notasse. Posai il mio gattino e presi la cassetta di pronto soccorso dal mobile sotto la televisione.

Mi medicai, lei si prende una benda per medicarsi. «No, comunque, mi sono solo tagliata preparando il pranzo» mentii sebbene fossi cosciente che come scusa non reggeva. Sul piano della cucina non c'era nulla da tagliare, neanche un pezzo di carota.

Mio padre si irrigidì e afferrò me per il polso, quello del braccio sano. «Andiamo in ospedale.»
«No, non serve. Non capiterà più, lo giuro» ribattei strappandomi alla sua presa.

Lui non rispose, ma io sapevo che non mi credeva. Ad ogni modo, mi lasciò perdere e mise ai fornelli per mettere l'acqua sul fuoco. «Non preparare per me, ho già mangiato» dissi un'altra cavolata, ma Felipe non sembrò nemmeno ascoltarmi.

Allora presi Micky e lo portai con me in camera, stendendomi sul letto su un fianco. Strinsi con la giusta forza il mio piccolo e ricominciai a piangere.

Cominciai a chiedermi se lui fosse stato felice senza avermi intorno. A quale gran fardello doveva essere per un padre avere una figlia affetta da autolesionismo e se anche mamma soffrirebbe nel vedermi così.
"Probabilmente si" suggerì la mia coscienza. Ma non avevo prove.

Per me, Paulina Cedeño-Diàz era qualcuno di troppo lontano da raggiungere. Morì poco tempo dopo avermi dato alla luce per un cancro, che la colpì e portò via troppo presto. Aveva solo trent'anni e io appena quattro mesi...i miei ricordi erano naturalmente molto vaghi.

Infilai la testa sotto il cuscino, lasciando il mio gattino che però decise comunque di starmi vicino, sistemandosi sull'altro cuscino – avevo un letto a due piazze. Ammetto, di averlo apprezzato molto come gesto da parte sua che probabilmente non stava nemmeno capendo che stava succedendo alla sua disastrata padrona.

Ebbi una specie di visione: mio padre, un giovane Felipe Diàz di circa quarant'anni, giocare con sua la sua piccola bambina per insegnarle a camminare.

Strinsi le palpebre e singhiozzai. Quei giorni erano così differenti dalla realtà che sembrano solo sogni, invece erano la verità. Un tempo, la serenità esisteva anche per me. Peccato che se n'era andata in un soffio come se in sostanza fosse solo il sogno di una notte.

Micky lasciò che mi sfogassi, ma a un certo punto interruppe la mia auto-commiserazione, miagolando e dandomi dei colpetti sulla spalla. Mi stropicciai gli occhi e alzai, notando un biglietto sul davanzale dalla finestra.

Anche se un po' sospettosa, lo presi e aprì, tornando al materasso che ora aveva le coperte spiegazzate e cosparse qui e là da lacrime.
Il biglietto citava:

"Non trasformare i pensieri nelle tue prigioni"

Era una frase si Shakespeare, bellissima quanto adatta in ogni sua sillaba a descrivere quegli ultimi giorni passati. Mi inquietò questa cosa. Non avevo idea di chi l'avesse portata e di come io avessi fatto a non accorgermi di nulla.
Sbuffai, stressata.

Decisi di sorvolare e tornare a riposare. Il giorno dopo sarei tornata a lavoro e promisi a me che non sarebbe successo più. Ne Andres Riva, ne tanto meno altri avevano il diritto di farmi sentire in quel modo e avrei fatto di tutto per evitarlo. Non volevo più soffrire. Specie, per le cattive intenzioni di un uomo.

CRASH | Errore di PercorsoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora