III. E la vita va troppo veloce

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Napoli, 1933, due giorni dopo

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Napoli, 1933, due giorni dopo

          «Che succede? Non vi piace?»

Ricciardi tradisce un sussulto nel riscuotersi, alzando subito gli occhi dal punto del tavolo in cui si erano infissi, assenti.

«Scusa, Rosa. Non ho fame.»

«Eh, voi non ce l'avete mai, ma non è una scusa per non mangiare. Siete sciupato e si vede. Di questo passo, non vi alzerete nemmeno più dal letto.»

Ricciardi pensa che quella prospettiva non gli sembra poi così terribile. Meglio che continuare a sbattere la testa in vicoli ciechi sul caso di Vipera, e meglio che crucciarsi in attesa di una telefonata, di una missiva, di un qualsiasi segnale da parte Livia.

Non ha più osato contattarla, rimettendosi di fatto completamente nelle sue mani; in un atteggiamento fin troppo simile alla preghiera, di chi avanza richieste al vuoto e attende che si realizzino con fede cieca. Lei avrebbe ogni motivazione per tirarsi indietro e ignorare la sua richiesta, sia perché fin troppo pericolosa, sia perché lui non si merita un briciolo della sua disponibilità (sia perché lei sa tutto, se lo sente nell'animo con la stessa certezza con cui sa che un morto lo fissa, non visto).

Sa anche che non lo tradirà; di Livia si fida, in un modo contorto che non riesce a spiegarsi del tutto e che ha a che fare coi sentimenti, sì, sebbene non quelli che lei vorrebbe da lui (o magari non del tutto, ma, a voler essere sincero, non lo sa nemmeno lui).

Lancia un'occhiata da sotto le ciglia a Rosa che, borbottando e mugugnando, gli toglie il piatto di friarielli da sotto il naso, sapendo che non li mangerà nemmeno il giorno dopo.
Si chiede cosa ne penserebbe lei, del fatto che il suo appetito, la sua insonnia e le sue emicranie sono peggiorate per via della preoccupazione per Bruno (è un tarlo instancabile che lo rode dall'interno, ormai). Sarebbe più semplice rivelarle che vede i morti, probabilmente. Non vuole davvero pensarci.

Quando Rosa torna dalla cucina strusciando i piedi e fa per portarsi via anche la brocca d'acqua e il bicchiere, le blocca con delicatezza la mano sul tavolo, stringendole piano le nocche nodose e rigide per l'artrosi. Rosa si arresta di colpo, sorpresa, ma posa semplicemente l'altra mano sulla sua, in un gesto così naturale che Ricciardi si sente strappare un po' l'anima dal petto. Si sente di nuovo il ragazzino appena orfano che cerca conforto nell'unica figura che non era scomparsa attorno a sé.

«Signorino, non state bene?» gli chiede, allarmata, stringendogli la mano con più forza di quanto dimostri, quella con cui impasta ancora il pane e sbatte le lenzuola e traffica in cucina con la stessa lena di vent'anni fa.

Ricciardi comprende il suo sconcerto. Non è famoso per concedere spesso gesti d'affetto (teme sempre di contaminare tutto ciò che tocca) e di rado così espliciti. Ancor più raramente cercati a quel modo quasi rozzo, di certo non in linea con il galateo che gli è stato inculcato sin da giovanissimo.

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