ONE

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Sono davanti alla porta di casa mia.

È strano chiamarla casa, visto che non ci metto piede da un anno. Undici mesi e tre settimane, precisamente.

Ma comunque.

Il vialetto è sempre lo stesso, i gradini pure e così anche la porta. Solo le piante sono cambiate: gli alberi piantati a intervalli regolari lungo la via sono cresciuti, i loro fusti sono più spessi e le loro foglie si sono triplicate; sono ben diversi dai fuscelli di un anno fa, quando erano appena stati piantati per quel progetto riguardante l'ambiente e la pulizia dell'aria. Mi ricordo di aver pensato a quanto fossero inutili, dal momento che, anidride carbonica o no, l'aria la sporcavamo comunque con le nostre cazzate.

Prima che qualcuno mi prenda come un invalido incapace di aprire una porta - o che semplicemente mi noti mentre rimango immobile fuori da casa mia come un ebete -, tiro fuori le chiavi dalla tasca posteriore dei jeans e le infilo nella toppa. Provo sollievo nel sentire scattare il meccanismo.

Non so cosa mi fossi aspettato di preciso; che le chiavi non fossero quelle giuste? Che avessero cambiato la serratura in mia assenza? Che altre persone avessero comprato il locale? In ogni caso, è piacevole entrare in un luogo così facilmente e venirne accolti.

Un angolo della mia bocca si solleva senza che io lo voglia. Come se ci sia davvero qualcuno ad aspettarmi all'interno dell'appartamento con palloncini e cappellini di carta, quando in realtà ci sono solo stanze vuote e mobili morti a guardarmi varcare la soglia.

Lascio che la porta si chiuda dietro di me mentre muovo i primi passi verso il soggiorno. Mi avventuro tra i vari ambienti, e a un certo punto il borsone deve scivolarmi giù dalla spalla, perché non ne avverto più il peso.

Casa mia non è rimasta uguale. Non è nemmeno semplicemente cambiata. È totalmente rinnovata, non ha niente in comune con le cianfrusaglie che avevo messo insieme con gli anni. Le pareti sono state ridipinte: bianco in cucina e sfumature di beige e perla nelle altre stanze. Ed è solo il dettaglio più insignificante. I mobili, dalla televisione agli armadi, sono stati gettati chissà dove e al loro posto sono comparsi articoli moderni, presi da una rivista di arredamento. Apro un cassetto, in cucina, e scopro che persino le posate sono nuove di zecca.

Immediatamente penso a mio padre. Tutto questo deve per forza essere opera sua. Come se, tipo, avere una casa rimessa a nuovo - anche se, probabilmente, casa non è il termine adatto implicando esso della familiarità col luogo che non ho - potesse aiutarmi a entrare in un altro tipo di vita, a lasciarmi indietro il passato. Be', papà, non è così che funziona. Il passato è stato vissuto e non puoi dimenticarti di essere stato vivo in esso, qualunque cosa tu faccia. Anche se ti sei drogato fino a non sentire più nulla.

Passo una mano su un tavolo, lo schienale di una sedia, una lampada, e avverto il forte desiderio di graffiarli, strapparli - almeno questo sarebbe un segno, un qualcosa lasciato da me.

Quando suonano al campanello, non posso impedirmi di balzare in aria per lo spavento. Penso: non può essere mio padre. Non è nel suo stile, ma, soprattutto, non sono pronto ad affrontarlo. Non ancora.

Esito. Un anno fa mi sarei roso le unghie fino alla carne, ma al centro ho rinunciato a quel brutto vizio.

Il campanello suona di nuovo e non posso aspettare ancora. In teoria, potrei fingere di non essere in casa, ma in pratica non posso né devo comportarmi come prima, quindi sospiro e attraverso il soggiorno in grandi falcate. Non ho chiuso la porta, quindi mi basta girare la maniglia per aprirla.

Un ragazzo, il braccio ancora alzato per bussare, passa dalla sorpresa a un sorriso cordiale senza il minimo sforzo.

«Nico Di Angelo?» domanda, lasciando che il braccio gli scivoli lungo il corpo.

A Darker Shade Of BlackDove le storie prendono vita. Scoprilo ora