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La barca oscillava violentemente sotto i miei piedi, e una sola domanda mi rimbombava nella mente: "Perché mai ero partita?"

Solo perchè la mia vita da 16enne era così perfida, non potevo più vivere tra la guerra e i tantissimi morti al giorno, i perfidi problemi economici della mia famiglia che sarebbero sfociati in un matrimonio combinato.

No, era impossibile resistere.

Decisi per questo di partire all'insaputa dei miei,  scappando tramite dei trafficanti, se così si possono chiamare, senza scrupoli che hanno portato me e degli altri africani che cercavano vita migliore attraverso il deserto per arrivare in Libia.

Cos'è un trafficante vi chiederete. In italiano significa colui che tratta qualsiasi affare senza guardare molto all'ammissibilità legale del traffico dei suoi oggetti, o in questo caso delle persone, e all'onestà con cui conduce le trattative. Tuttavia, per essere trafficanti, devono quasi costringere una persona a viaggiare con loro, mentre noi migranti ci affidavamo totalmente a loro, diventando inconsciamente clandestini. Trafficanti quindi, è un termine esagerato.

I giorni non finivano mai in quel mare di sabbia; ho perso quasi subito la percezione dello scorrere del tempo dopo le prime due o tre giornate: non so esattamente quanto tempo abbiamo passato in quell'inferno.

Eravamo tutti stipati in un grande camion, c'erano tantissime donne e bambini.

Arrivata in Libia, cercai di trovare un lavoro, anche se le condizione erano pessime. Incredibile, ero scappata da un paese dove i morti si susseguivano come rose che perdono petali una volta sfiorite e mi ritrovavo, dopo molta fatica, in uno stato dove i diritti umani non erano minimamente contemplati.

In Libia i diritti di un'individuo non sono importanti, soprattutto se sei un immigrato, ma anche i cittadini non godono di un buon trattamento.

Le uccisioni illegali, il maltrattamento e le torture sono all'ordine del giorno: ci troviamo in un contesto invivibile di totale crudeltà.

Ho dovuto lavorare in un bar pagata poco in e condizioni pessime, avevo capito che ormai la situazione era insopportabile: dovevo andarmene.

Resistetti Per il tempo necessario a guadagnare il giusto sufficiente per acquistare un visto da quei "trafficanti" (apparenti semplici scafisti) che mi permettesse di entrare in Italia. Ancora non sapevo che sarei diventata clandestina, infatti per noi migranti acquistare  un visto era normalissimo che qualcuno ci concedesse un documento per scappare, e non ci siamo mai fatti domande su che fossero in realtà questi scafisti. Trafficanti? Abusatori delle sfortune altrui? Opportunisti? Non lo sappiamo, non esiste una parola che riesca a descrivere tutti questo.

Come d'altronde non ne esiste una per descrivere tutta la mia odissea.
E vi giuro, ho cercato in lungo e in largo.

Finalmente sono riuscita ad acquistare visto illegale, il viaggio stava per cominciare e sapevo che la mia vita avrebbe preso una svolta decisiva.

Ora mi pento, forse, di quella scelta. Siamo stati stipati in un grossa barca malridotta, notavo che molte donne che erano visibilmente state picchiate sussurravano parole confortanti e di speranza ai loro bambini che piangevano disperati.

Quanto avrei avuto avere anche io dei genitori così e che non mi vendessero come fossi un oggetto al primo uomo che passava con delle banconote in mano.

Le condizioni di viaggio non erano delle migliori: oltre alla nave, vecchia e malandata, il cibo e l'acqua (ormai c'eravamo abituati) scarseggiavano, e molte persone si bruscavano malattie anche letali. Nulla che mi potesse stupire.

Se per puro caso un'onda più grande delle altre finiva sul ponte, tutti noi ci  bagnavamo dalla testa ai piedi, e proprio così mi trovavo in quel momento. Tremavo dal freddo, ma un certo punto mi ritrovai qualcosa sulle spalle a diminuirmi i brividi provocati dal gelo: una giacca.

Mi girai e vidi vidi un ragazzo di circa 14 anni che me l'aveva appoggiata.

«Ho visto che avevi freddo...» mi disse.

«Grazie.»  risposi.

«Figurati, tra noi dobbiamo essere solidali!»  mi sorrise.

Poi però, il suo sorriso  si tramutò in un'espressione di paura.

Davanti a noi era emersa un'onda gigantesca che con un rombo ci stordì, precipitando sulla nave con una violenza inimmaginabile, tanto forte da far ribaltare la barca.

L'acqua gelida mi avvolse totalmente, e la sensazione che provai fu terribile. I miei polmoni iniziarono a bruciare, avevo così tanto desiderio di aprire la bocca per far entrare aria, ma sapevo che sarebbe stato solo peggio: lì sotto di aria non ce n'era.

Poi, mi sono sentita afferrare per la giacca, e sono riemersa. La mia bocca si è riaprì, avida d'aria; ero sicura che se fossi rimasta un solo secondo in più sarei morta tra le onde del Mediterraneo. Quel mare così bello... chissà quanti cadaveri di uomini e donne come me giacevano sulle profondità di quella bellezza del mondo.

Cercai istintivamente il ragazzo della giacca, ma non l'ho trovato. Ero salva solo per merito suo, ma non vedendolo mi colse un solo doloroso pensiero: lui non ce l'aveva fatta.

Fortunatamente eravamo molto vicini a Lampedusa, e durante la traversata in gommone non incontrammo particolari problemi.

Appena misi  piede sul molo dell'isola finalmente mi sentii al sicuro, su una terra stabile.

Voltandomi ho visto il mare, placido dopo quella tempesta.

Soffermandomi sulla linea dell'orizzonte pensai: "È là da dove sono partita, ma è qua il mio futuro.

AdharaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora