1711 A LLORA , dov'ero finito? Caroline. Volevi sapere come l'ho conosciuta. Ebbene, c'è dietro una storia, come si suol dire. C'è dietro una storia. Per raccontarla devo tornare a molti anni fa, quando ero un semplice allevatore di pecore, prima che sapessi di Assassini o Templari, di Barbanera, di Benjamin Hornigold, di Nassau o dell'Osservatorio, tutte cose di cui sarei rimasto probabilmente all'oscuro per sempre senza quell'incontro casuale avvenuto all' Auld Shillelagh in una calda giornata d'estate del 1711. Ero uno di quei giovani focosi a cui piaceva mandar giù un sorso, a costo di finire in qualche baruffa. Un discreto numero di... incidenti , se vogliamo chiamarli così, dei quali non vado troppo fiero. Ma è la croce che sei costretto a portare se hai un piccolo debole per l'alcol; è difficile trovare un bevitore con la coscienza pulita. A molti di noi prima o poi viene da pensare di farla finita, imboccare la retta via e rivolgersi magari a Dio o cercare di combinare qualcosa di buono. Ma poi viene mezzogiorno e senti che quel che ti serve è un altro bicchiere e allora te ne vai alla taverna. Le taverne di cui parlo erano a Bristol, sulla costa sudoccidentale della cara vecchia Inghilterra, dove eravamo abituati a inverni feroci ed estati gloriose, e quell'anno, quell'anno particolare, l'anno in cui la conobbi, il 1711, come ho detto, avevo solo diciassette anni. E, sì, certo, quando è successo ero ubriaco. Bisogna dire che a quei tempi lo ero spesso e sovente. Forse... be', adesso non esageriamo, non voglio che ti faccia un'idea troppo negativa di me. Ma forse metà del tempo. Magari un po' di più. Casa mia era ai margini di un villaggio che si chiamava Hatherton, a una decina di chilometri da Bristol, dove gestivamo un piccolo allevamento di pecore. Mio padre aveva testa solo per il bestiame. Così era sempre stato e poter contare su di me lo aveva scagionato da quell'aspetto del suo lavoro che più detestava, cioè andare in città con la merce, trattare con compratori e grossisti, discutere, accordarsi. E appena fui abbastanza cresciuto, cioè intendo appena fui abbastanza uomo da guardare negli occhi i nostri clienti e parlare con loro alla pari, be', è ben quel che feci. E mio padre ne fu fin troppo felice. Mio padre si chiamava Bernard. Mia madre, Linette. Erano originari di Swansea, ma erano giunti nella West Country quando io ero sui dieci anni. Avevamo ancora un accento gallese. Non credo che mi desse molto fastidio che ci segnasse come diversi. Io ero un allevatore, non una pecora. Papà e mamma dicevano sempre che avevo una bella parlantina e la mamma in particolare mi ripeteva che ero un bel giovanotto e che sapevo come rendermi irresistibile, ed è vero, anche se quel che dico io non può far testo, che con le signore avevo un notevole successo. Mettiamola così: le trattative con le mogli dei mercanti erano un terreno di caccia più proficuo di quelle con i loro mariti. Come trascorrevo le giornate dipendeva dal periodo dell'anno. Da gennaio a maggio era stagione di nascite, il nostro momento di lavoro più intenso, quando mi ritrovavo negli ovili al sorgere del sole, con o senza un cerchio alla testa, a vedere se qualcuna delle femmine aveva partorito durante la notte. In tal caso, veniva trasferita in una delle stalle più piccole e chiusa in un recinto, dove allattare l'agnellino, e da lì in avanti se ne occupava mio padre, mentre io pulivo le mangiatoie, le riempivo, cambiavo il fieno e l'acqua, e la mamma prendeva meticolosamente nota dei nuovi nati su un registro. Io all'epoca non sapevo scrivere. Adesso sì, naturalmente, mi ha insegnato Caroline, insieme con tante altre cose che hanno fatto di me un uomo, ma a quei tempi ancora no, perciò il compito ricadeva sulla mamma, che non era un granché meglio, ma ne sapeva quel tanto da poter almeno compilare un elenco. Amavano lavorare insieme, papà e mamma. Altro buon motivo per cui a mio padre piaceva che ad andare in città fossi io. Lui e mia madre erano come una cosa sola. Non avevo mai visto due persone così innamorate e che avessero così poco bisogno di mostrarlo. Era chiaro come il sole che si sostenevano a vicenda. Era una cosa che faceva bene all'anima. In autunno portavamo i montoni al pascolo a brucare con le femmine, in modo che avessero l'occasione di fare quel che dovevano per produrre altri agnelli nella primavera seguente. E c'era da star dietro anche ai pascoli, costruire e riparare recinzioni e muretti. D'inverno, se il tempo si metteva veramente al brutto, portavamo le pecore al chiuso, le tenevamo al sicuro e al caldo in attesa che in gennaio cominciasse la stagione degli agnelli. Il mio momento però veniva durante l'estate. Stagione di tosatura. Se ne occupavano soprattutto mamma e papà, mentre io mi recavo più spesso in città, non con carni da macello, ma con il carro carico di lana. E d'estate, avendo ancor più occasioni, mi ritrovavo a frequentare più spesso le taverne locali. Si può dire che nelle taverne fossi divenvu una figura familiare nel mio lungo panciotto abbottonato, i calzoni alla zuava, le calze bianche e quel tricorno marrone un po' malconcio che consideravo il mio marchio di fabbrica, perché mia madre diceva che andava bene con i miei capelli (che avevano sempre bisogno di una spuntata, ma erano di un impressionante color biondo sabbia, se mi è permesso dirlo). È stato nelle taverne che ho scoperto che la mia parlantina migliorava dopo qualche birra bevuta all'ora di pranzo. È l'effetto tipico dell'alcol, no? Scioglie la lingua, le inibizioni, le remore morali... Non che da sobrio fossi proprio un tipo timido e riservato, ma di sicuro la birra mi dava quel certo spunto in più. O almeno così dicevo a me stesso. E dopotutto i soldi guadagnati con le vendite supplementari in conseguenza della mia aumentata abilità di venditore coprivano abbondantemente il costo della birra stessa. O almeno così dicevo a me stesso. E, a parte la pretesa un po' sciocca che Edward brillo fosse un venditore migliore di Edward sobrio, c'era anche qualcos'altro ed era il mio stato d'animo. Perché la verità è che pensavo di essere diverso. Anzi, no, sapevo di essere diverso. C'erano volte in cui la sera me ne stavo per conto mio e sapevo di vedere il mondo in un modo che era tutto personale. Ora so cos'è ma a quei tempi non avrei saputo spiccicare una parola, oltre a dire che mi sentivo diverso. E grazie a quella sensazione, o nonostante essa, avevo deciso di non voler fare il pecoraio per tutta la vita. Lo avevo capito il primo giorno, quando avevo messo piede alla fattoria come impiegato e non come figlio e avevo visto me stesso, poi avevo guardato mio padre e avevo intuito che non ero più lì per giocare e per poi tornare a casa a sognare un futuro di vele dispiegate ai venti degli oceani. No, era quello il mio futuro, e avrei passato il resto della vita ad allevare pecore, a lavorare per mio padre, per poi sposare una ragazza del posto, mettere al mondo figli a cui insegnare come diventare pecorai, come aveva fatto il loro padre, come aveva fatto il loro nonno. Avevo visto il resto della mia vita spianata davanti ai miei occhi, come vestiti da lavoro puliti stesi sul letto, e invece di sentire crescere dentro di me una calda sensazione di felicità e appagamento, ne ero stato terrorizzato. Dunque la verità - e non c'è modo di metterla in altro modo, ti chiedo scusa, padre, che Dio abbia cura della tua anima - era che detestavo il mio lavoro. E dopo qualche birra, be', la sola cosa che posso dire è che lo detestavo di meno. Annegavo nell'alcol i miei sogni più arditi? Probabilmente. All'epoca non ci ho mai pensato. So solo che, appollaiato sulla mia spalla, come un gatto rognoso, incancreniva un risentimento per il modo in cui si andava sviluppando la mia esistenza, o, peggio ancora, si era già sviluppata. Forse ero un po' indiscreto riguardo ai miei veri sentimenti. È possibile che talvolta abbia dato ai miei amici bevitori l'impressione di pensare che il mondo avesse in serbo per me cose migliori. Cosa posso dire? Ero giovane e spaccone ed ero un ubriacone. Una combinazione letale anche nelle migliori circostanze. E quelle circostanze non erano decisamente le migliori. «Tu ti ritieni superiore a tutti noi, eh?» Erano parole che sentivo spesso. In questa forma o simili. E forse sarebbe stato più diplomatico da parte mia dare una risposta negativa, ma non lo facevo, e per questo mi ritrovavo a scazzottare più del normale. Forse era per dimostrare che ero meglio di loro in tutte le cose, scazzottature comprese. Forse a modo mio difendevo il nome di famiglia. Bevitore, questo sì. Donnaiolo. Arrogante. Inaffidabile. Ma vigliacco no. Oh, no. Se c'era da menar le mani, non ero certo io a tirarmi indietro. Ed era durante l'estate che la mia spericolatezza raggiungeva il suo culmine; quando ero più che mai ubriaco e più che mai presuntuoso e nel complesso più che mai un gran fastidio. D'altra parte però anche molto più incline ad aiutare una fanciulla in difficoltà.