Avevo seguito la scia. Chiunque taglia la ragione con un'ascia se a comandare è la fame ruggente.
Come un monaco che affronta bendato dalla sola speranza la via sbagliata, avevo deciso di abbandonare chi avevo sempre conosciuto al pari di un ciottolo lungo la strada. Smagrito, consumato da un pulsare costante sotto i piedi e da quello incessante che demoralizzava il mio cervello, avevo percorso l'inferno solo per scontrarmi con la poca accoglienza.
I membri della tribù da cui giunsi avevano grossi denti giallastri in cui riuscivo a vedere riflessa la violenza del cielo pomeridiano; avevano occhi pieni d'appetito assecondato ma rughe sulle palpebre da rospo; portavano capezzoli lividi e pettorali cadenti come amache. Eppure, nonostante l'aspetto smunto, i loro stomaci erano grossi e tesi, lavorati sapientemente dalle scorpacciate come borse in pelli d'animali.
Tentarono di farmi sparire prima che giungesse l'oscurità. Non mi lasciai intimorire. Di notte, mi riparai fra le erbe pungigliose pregando che piovesse, che un temporale lavasse via il gonfiore dei miei polpacci e riempisse in una conca la mia gola rinsecchita. Il gallo cantò senza che una singola goccia mi avesse sfiorato il volto. Di giorno, sapevo che chi mi avrebbe visto avrebbe tentato di farmi fuggire minacciandomi, in quella seconda occasione, con lame e archi con frecce robuste. Gironzolai per le tende vergognandomi come il ladro che non ero, ma che sarei volentieri diventato se avessi trovato un granello di carne secca.
Una zanzara ronzò sul mio lobo. La persi di vista, ma ne avvertii il risucchio solleticante. La mano viaggiò flemmatica, senza impegno: di quel passo, di me, gli insetti non avrebbero trovato che porose ossa.
Uno scalpitare piuttosto lontano catturò la mia vista strabuzzata. Sui colli lontani e tinti di un tetro bruno, la polvere si arrotolava in cerchi effimeri per poi lasciare scie di terra smossa. Passi di cavalli violentarono i miei sensi, tamburellando nei miei timpani. Un attacco. Il desiderio di un'altra tribù, di qualcuno assetato, di rubare averi, cibo, donne e stracci. Svegliatomi da un sogno spiacevole, mi resi conto solo allora che avrei dovuto fare qualcosa, ma che dei membri della tribù non c'era traccia. Le tende mi ghignavano tutte uguali nel loro colore ocra sbiadito. Riuscii a sospettare di un ingresso comune solo quando una bambina, correndo ingolfata da una gonna a tulipano, s'infilò in due lembi di tela. La seguii, riluttante, mentre la mia schiena tendeva alle colline e il mio pomo d'Adamo spingeva verso gli ululati umani che iniziavo a udire: sembravano canti appassionati le cui note non calavano mai fin nei sandali. Affacciatomi oltre l'ingresso nascosto, un olezzo aspro mi raggiunse in una zaffata. Fumi si sprigionavano da carne d'equino appena abbrustolita, salendo dall'altare fatto di tappeti, arrampicandosi sulla bocca serrata del Totem.
Il mio stomaco smise di contrarsi, sbocciò in germi di desiderio per la filettatura rosata. Attorno ai ricchi pasti, la tribù danzava. In alto le ginocchia grezze e biancastre di polvere, rimbalzavano gli stomaci come palloni, tintinnavano i gioielli al pari di farfalle isteriche, picchiavano gli acuti e martellavano i teli.
Il Totem li fissava con le orbite in pietra. Era divino, eppure era stato inciso dagli uomini, decorato con una fatica che faceva stendere la lingua fuori dalle labbra. Non aveva pupille per guardare, né papille per divorare. Nonostante ciò, la tribù ballava per quel monolite senz'anima e sgozzava uno dei cavalli per fuggire e per spostarsi in suo onore. Gridando in una lingua potente, si buttarono sui pasti come se non avessero usato i denti per mesi. Il corpo dimenticò il coraggio che mi aveva spinto così distante da casa, dagli affetti. M'impalai come una gallina spennata, trafitta nel retto da una lancia. Tremai, inquieto, mentre quelle carni e la frutta e le salse razzolavano via, ma sempre nelle bocche e mai disperse a terra.
L'invidia, più che il giudizio, mi offuscò i sensi al punto che quasi dimenticai di comunicare loro dell'imminente attacco. Me ne ricordai quando, fra le tonsille spalancate, notai anche quelle minuscole della bambina che avevo seguito poco prima. Mi sbracciai, allora, ma quelle dita deboli vennero afferrate da alcune donne dalla pelle arrugginita, e annunciai il disastro a gran voce, quindi, ma quelle parole vennero inghiottite dalla potenza dei canti. Sballottato in aromi che non appartenevano alla mia cultura, passai da verso a verso fra lo scheletro del cavallo divorato e i tamburi sfrenati. Sotto la droga dei fumi, la mente vorticò verso galassie affascinanti che portavano gli stessi occhi del Totem. Rotolai, esausto cadavere, sotto le grinfie di una strega dalla voce raschiante, e in cielo vidi solo bagliori. Prima che diventassero boati.
Fu allora che udii nuovamente lo scalpitare incalzante. Non strillai, ma riemersi dal sonno della ragione mentre gli altri erano preda della confusione e incantati dal suono della musica. La presenza di barricate umane in ogni centimetro mi impedì di valutare l'opzione di fuggire all'esterno. La speranza portò le mie iridi a viaggiare fra le stoffe delle gonne e dei tappeti, fra il punteruolo vorticante dal cielo e le ossa abbandonate nel sangue, fra le chiome delle donne e delle bestie. Lo vidi, finalmente: la bocca del Totem era serrata, ma la mascella slogabile mi chiamava al pari di un incantatore di serpenti. Inciampai nei miei piedi, arrancando verso la vita. Mi aggrappai alla scultura, le cui tinte rosse infiammarono i miei palmi. Tirai, e tirai, fin quando le dita dei piedi non si sollevarono da terra. La bocca si aprì in uno schianto, rovinando sul terreno. Fra le polveri, riconobbi fila di sangue che colavano lungo le mie gambe pallide, che non erano state trapassate per miracolo. La bocca aperta era un cunicolo scuro che terrorizzava. I cavalli erano sempre più vicini, agghiacciandomi maggiormente. Saltai senza riflettere. Lì, schiacciai la testa fra le ginocchia e assunsi la posizione di un verme. Tentai di richiudere lo sportello. Ebbi l'impressione cieca che i gomiti si sarebbero staccati dallo sforzo e sarebbero rotolati come crani. Richiusi, venendo rapito dal nero.
Lo strillo in frantumi di un vecchio calò con un'ascia. Di ciò che accadde dopo, i miei timpani riuscirono a raccogliere frammenti d'inferno sconci e sconclusionati. Nel Totem, pregavo nella mia lingua digitando disperazione in tasti di strumenti, che il mio cervello si rifiutava di lasciar andare. Implorai le aquile in volo, lo scorrere delle acque pure, la forza creatrice che faceva nascere le foglie dai brutti semi. Nulla di ciò che evocai mi salvò dalle fiamme del peccato che si stavano scatenando fuori dal mio nascondiglio. Il Totem, ingrato di ciò che la gente aveva sacrificato per lui, restò immobile a inghiottire quei suoni.
Il silenzio venne troppo presto. Non riuscivo a inalare ossigeno che non fossero le polveri del monolite.
Ero spremuto dal sudore e dagli umori che i fumi tossici del rituale avevano generato in me.
Eppure, uscire dalla bocca del Totem avrebbe significato essere rapito dallo spettacolo degenerante dello sterminio. Avrei annusato la carne cruda di quegli sconosciuti crivellata dai colpi della razzia. Avrei visto il loro sangue, avrei sentito il mio legarsi col loro: dopotutto, era a quello che servivano i rituali. Eppure, quelle danze simbiotiche non avevano avuto quell'effetto su di me. La smorfia della morte, invece, l'avrebbe avuto.
Trascorsero forse ore, più che minuti, quando incanalai l'energia necessaria per spingere via la pietra e, nuovamente, liberarmi. Avrei voluto infilarmi aghi nelle cornee, se questo fosse servito a impedirmi di guardare. Scivolai sul terreno, su cui lunghe trecce di intestini violacei stavano annegando in laghi scarlatti. Pupille spalancate mi trafiggevano oltre gli specchi di una lama che scavava la fronte. Un piede nuotava affaticato verso una testa mozzata, dal volto sfigurato e dalle ciocche impreziosite di gocce di rugiada rossa. Il corpo della bambina che aveva trascinato il mio verso la sopravvivenza aveva condotto il suo verso l'oblio.
Diedi le spalle al massacro che strideva i denti. Fissai il Totem e la sua espressione di greve disappunto, che si ergeva da montagna sull'ammucchiata di organi che avevano perso il proprio tempio umano. A nulla erano servite le offerte in suo onore. E nessuno, a parte lui, aveva osservato ciò ch'era accaduto in quella tenda.
Lanciai uno sguardo di sbieco al tappeto di carni. L'aroma del cavallo cotto e fumante era svanito, così come il suo scheletro, disseminato in angoli sconosciuti assieme ai resti delle ossa umane. Restava un odore acido, che impregnava le mie narici e le portava ad allargarsi a ogni zaffata. Ai miei piedi non vi erano donne, uomini, bambini, belve da macello o da monta. La morte rendeva tutti uguali.
Lo stomaco tornò a pungere, potente quanto una scarica d'elettricità mandata dagli dei. Non seppi per quanto rimasi inchiodato con lo sguardo a uno dei cadaveri. Non l'avevo scelto, di insistere nello squadrarlo, ma capii che ero in pena per il suo destino, e compresi che fosse per via del legame di sangue, quel nodo che unisce e incatena gli uomini fra loro. Le danze erano servite a farmi sentire finalmente non più come un ladro, ma come parte di una comunità che non mi era mai appartenuta prima.
L'obiettivo del Totem non era mai cambiato.
La treccia di fegato di quel cadavere da me ammirato sembrò prendere vita, pompare sangue e iniziare a pulsare, o forse erano le mie ciglia che tremavano dall'atroce fame.
Mi inginocchiai e, allungando un braccio, strinsi la succosa muscolatura fra le dita.
Mi leccai le labbra.
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Iᄂ ƬӨƬΣM - [IL TOTEM]
HorrorEro spremuto dal sudore e dagli umori che i fumi tossici del rituale avevano generato in me. Eppure, uscire dalla bocca del totem avrebbe significato essere rapito dallo spettacolo degenerante dello sterminio. Avrei annusato la carne cruda di quegli...