Il disco jazz

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Pietro soffriva di un conflitto interiore. Amava alla follia Bitches Brew di Miles Davis, eppure non gli andava granché a genio il fatto che uno dei suoi album preferiti fosse la composizione più famosa di uno degli artisti più celebri del panorama jazz mondiale. Se si pensa al jazz, si pensa quasi immediatamente a Davis; se si pensa a Davis, si pensa immediatamente a Bitches Brew. Equivaleva ad affermare che il proprio film preferito fosse 2001 – Odissea nello Spazio. Estremamente banale da dire, seppur obiettivamente l'opera sia di assoluta qualità. Abbastanza ricercato da fare bella figura con la maggior parte delle persone, ma in uno scambio intrattenuto con veri esperti in materia risulterebbe essere una scelta scontata. Immaginò una schiera di esperti musicisti ghignare con fare supponente e sciorinargli una serie infinita di dischi provenienti dalle più disparate parti del mondo di cui lui non aveva mai sentito neanche nominare. Tuttavia, superata quella prima fase di paranoia elitista, Pietro non poté fare a meno di abbandonarsi a quel flusso morbido e acre di note e melodie malinconiche, colme di ferite. In fondo, era pur sempre Miles Davis. Da quando occorreva giustificarsi?

La pausa era finita. Il piacere dell'ascolto, come al solito, non si tradusse in ispirazione. Pietro si alzò dalla sedia, sciacquò la tazzina di caffè vuota su cui erano rimaste delle chiazze stantie di liquido marrone condensato, spense il lettore, rimosse il vinile e lo ripose gelosamente nella custodia. Passò dinanzi alla scrivania su cui riposava una pila sostanziosa di fogli bianchi. Accanto a quella, qualche sporadico pezzo di carta decorato di parole, tutti raccolti con una graffetta. Erano i racconti scritti in rari momenti di estro creativo. Un lenzuolo di polvere si era concentrato su tutta la superficie. Dall'altro lato della stanza, prospiciente alla scrivania, campeggiava una tela di trentacinque centimetri per cinquanta, immancabilmente vuota, posata su un cavalletto in legno il cui colore scuro mal si accostava al blu notte del divano lì accanto.

Erano passate settimane dall'ultima volta in cui Pietro era riuscito a scrivere qualche frase decente o a dipingere qualsiasi cosa. Ogni tentativo era insapore, sbagliato, offensivamente amatoriale. Questo era inaccettabile per Pietro, che amava l'arte da tutta la vita in ogni sua forma. Dopo anni passati a godere del lavoro altrui, da qualche tempo a questa parte Pietro aveva deciso di mettere in pratica tutto quello che aveva imparato e studiato. Appena finita la scuola, qualche anno prima, ogni momento della vita di Pietro che non fosse dedicato all'università era rivolto a trovare "l'idea", la scintilla con cui avrebbe dato vita a qualcosa di magnifico. Bramava la possibilità di lavorare grazie alla propria inventiva e di esprimere le proprie pulsioni e le proprie angosce tramite la fantasia. Purtroppo, dopo un primo periodo di produzione forsennata, Pietro cominciò a rinnegare ferocemente ogni sua fatica, mosso da un aspro animo autocritico. In seguito, non fu neppure in grado di tessere le basi di una storia o figurarsi gli elementi compositivi di un'immagine. Venne ben presto travolto dalla frustrazione. Passò interi pomeriggi a fissare il vuoto in cerca di una storia, con la stessa pazienza di un pescatore seduto su uno scoglio all'alba. L'idea che questa stasi non derivasse dalle circostanze, ma dalla mancata conoscenza delle cose del mondo, lo devastava. Ogni tema che tentava di trattare gli sfuggiva di mano. Come poteva, ad esempio, scrivere un romanzo sui viaggi in mare, lui che non era mai salito su una barca in vita sua? Come poteva pensare di scrivere un racconto storico senza la sufficiente documentazione sul periodo preso in esame? Anche qualora fosse stato in possesso di informazioni sufficienti, come restituire un'autenticità al lettore o allo spettatore? Come comunicare la cruda verità di ambienti che non gli erano familiari? Un buono studio preparatorio poteva solo parzialmente risolvere questo cruccio. Era probabile che non avesse vissuto abbastanza e che possedesse un bagaglio esperienziale alquanto misero. Di conseguenza, non aveva nulla di importante da dire, nessun pensiero profondo da condividere, nulla che lo toccasse abbastanza da poter ravvivare qualche fiamma interiore. Si sentiva arido, empio, insensibile. Tutto ciò che Pietro riconosceva a se stesso era solo un'avvolgente, tiepida mediocrità. Inoltre, la sua quotidianità era piena di ronzii, rumori e chiacchiericci che gli impedivano di concentrarsi appieno. Per questo aveva preso una decisione radicale. Conclusa la sessione estiva all'università, si rinchiuse da solo nella casa in campagna che apparteneva ai nonni, senza contatti con l'esterno né distrazioni, in mezzo agli Appennini in un paesino sperduto del centro Italia. Portò il cellulare con sé, ma solo dopo una lunga contrattazione con la madre. Inizialmente Pietro aveva intenzione di lasciarlo in città, ma si aprì infine a un compromesso: due volte al giorno Pietro avrebbe usato il telefono per comunicare con la madre e aggiornarla riguardo gli eventi della giornata. Per il resto del tempo, l'apparecchio sarebbe rimasto spento e inerme in un cassetto accanto al letto, situato in una stanza al piano superiore (e quindi per nulla immediato da raggiungere).

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