Quando Denise capì che avrebbe dovuto prendersi la vita di un ragazzo più grande di lei di solo un anno per sopravvivere, pianse.
Pianse quando fu ricoverata, pianse prima di entrare in sala operatoria salutando la madre e il padre perché non sapeva se avrebbero potuto rivedersi, pianse quando riaprì gli occhi e li rivide al suo fianco.
Pianse guardandosi allo specchio la prima volta, pianse quando tolsero la medicazione e vide la lunga cicatrice solcarle il petto. Pianse perché non aveva conosciuto quel ragazzo, perché non sapeva come fosse fatto il suo viso, perché non sapeva quali emozioni avesse nascosto dentro di sé. Di lui conosceva soltanto la morte, un incidente - così le avevano detto - lo aveva trasformato in un vegetale.
E Denise, che di tempo ne aveva, non faceva che pensare e pensare a come la vita di un ragazzino - perché questo era stato - fosse stata portata via all'improvviso. Si sentiva in colpa e allo stesso tempo voleva che lui continuasse a vivere con lei.
Pregò la madre di farle incontrare la sua famiglia e lei acconsentì, ma soltanto dopo essersi stabilizzata del tutto. E Denise pensò e pensò ancora, giorno dopo giorno, fin quando alla sua porta non bussò qualcuno che non fosse infermiere, dottore o clown in cerca di un suo sorriso.
Era spettinata e aveva i vestiti stropicciati, le occhiaie scure e una magrezza quasi eccessiva. Non avrebbe mai voluto farsi trovare in quelle condizioni, in pigiama, eppure lo sguardo di quella coppia sembrò sorvolare il suo aspetto.
La guardarono a lungo, in silenzio, con gli occhi appena lucidi e deboli sorrisi sulle labbra. Si avvicinarono, si presentarono, le chiesero come si sentisse e le parlarono come lei avrebbe voluto fare con loro, ma le parole le rimasero bloccate in gola per troppo tempo. Si rese conto soltanto istanti dopo che poco più indietro si stava nascondendo un ragazzo che di loro non aveva nulla, si teneva le mani in tasca e la guardava con quella diffidenza con la quale lei stessa si era guardata allo specchio giorni prima.
«Scusami.», fu l'unica cosa che riuscì a sussurrargli quel giorno. Scusami, fu la prima parola che Denise rivolse a Tyson.
Tyson scosse la testa e distolse lo sguardo e Denise pianse, ancora una volta, tra le braccia di quegli sconosciuti che presto sarebbero diventati una nuova famiglia.
Ritornarono, sempre più spesso. Tyson aveva iniziato a parlarle, aveva iniziato a restare con lei senza che i suoi genitori venissero a saperlo, le portava le foto di Miles - suo fratello - e le raccontava tutto quello che dall'adozione di Tyson avevano fatto insieme, le raccontava le sue emozioni, i suoi pensieri e la sua anima. E Denise ascoltava in silenzio assorbendo tutto quello che poteva per poter dare un senso alla sua esistenza.
Tyson divenne il suo migliore amico, l'aiutò a riprendersi, a non guardare più quella cicatrice con disprezzo e a non guardare più se stessa con biasimo. E, adesso, lo stesso Tyson - cresciuto ormai di qualche anno - la stava seguendo lungo tutto l'appartamento in preda a un'ansia inspiegabile.
«Tyson, sto bene.», ripeté Denise uscendo dal bagno per raggiungere la sua camera, spazzolandosi i capelli.
«Sei sicura? Vorrei poter saltare la simulazione.», rispose nuovamente, prima che la testa di Denise spuntasse oltre la porta.
«Va tutto bene, c'è Isaac.», lo rassicurò con un sorriso.
«Sì, ma Isaac...», replicò ancora il ragazzo.
«Isaac non è te, lo so. - sospirò Denise uscendo dalla camera per mettersi di fronte all'amico - Ma Isaac è una brava persona e io sono grande ormai, possiamo farcela.», gli disse poggiando le sue mani sulle sue spalle e stringendo appena le dita in segno di solidarietà.
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𝗦𝗼𝗺𝗲𝘁𝗵𝗶𝗻𝗴 𝗡𝗲𝘄
General Fiction«𝑵𝒆𝒔𝒔𝒖𝒏𝒐 𝒉𝒂 𝒄𝒐𝒏𝒐𝒔𝒄𝒊𝒖𝒕𝒐 𝒅𝒂𝒗𝒗𝒆𝒓𝒐 𝑵𝒐𝒆𝒍. 𝐹𝑜𝑟𝑠𝑒 𝑛𝑒𝑚𝑚𝑒𝑛𝑜 𝑁𝑜𝑒𝑙 𝑒̀ 𝑟𝑖𝑢𝑠𝑐𝑖𝑡𝑜 𝑎 𝑐𝑜𝑛𝑜𝑠𝑐𝑒𝑟𝑠𝑖.» Noel Sanford ha avuto paura di se stesso. Noel Sanford ha avuto paura del mondo. Noel Sanford ha avu...