Capitolo 1

545 42 28
                                    

1938

La neve ricopre le strade di Varsavia, rendendomi difficile camminare con solo le mie scarpe in tela nei piedi, ma non posso permettermi altro.

La mia famiglia è piuttosto povera: mio padre lavora in una fabbrica in periferia e, da quando la Polonia è finita sotto il dominio tedesco, il suo salario è quasi dimezzato; mia madre, invece, lavora presso la casa di un ricco che vive qua in città e anche la sua paga è davvero bassa.

I miei genitori mi dicono sempre che sono un bambina molto fortunata, però. Sostengono che non è da tutti avere più di due abiti e andare a scuola, soprattutto se si è ebrei.

Spesso mi chiedo cosa centri il fatto di essere ebrei. Abbiamo anche noi i capelli, un paio di occhi e il diritto di essere trattati come le altre persone, ma ho solo undici anni, certe cose non le posso capire.

Mia affretto a percorrere gli ultimi metri che mi dividono dalla scuola e, non appena varco la soglia dell'istituto, vengo abbracciata da un calore confortante, che mi permette di riacquistare la sensibilità nei piedi e nelle mani.

Questo è il mio primo anno qui e, a volte, desidero che sia l'ultimo. Vengo spesso picchiata e insultata, in più, i professori, non mi permettono quasi mai di rispondere alle domande, ma sarà perché sono nuova e una delle più piccole.

Poso la cartella nel mio solito banco, situato nel fondo della classe, e tiro fuori il libro della prima ora. Inganno il tempo perdendomi fra i caratteri ordinati che raccontano le imprese di Napoleone e mi chiedo pigramente se siano davvero successe o se siano solamente frutto della fantasia di qualcuno.

"Sophie!" Vengo riportata alla realtà dalla voce dalla mia migliore amica, che mi stringe in un abbraccio.

"Ciao Anna" Le sorrido dolcemente, ricambiando l'abbraccio.

Anna è la mia unica amica qua. Ha i capelli biondi e ha un carattere tanto bello quanto i suoi occhioni azzurri. È sempre allegra e disponibile con tutti e, soprattutto, è una delle poche persone che mi tratta come se non fossi ebrea. Lei non viene spesso a casa mia, anzi, a dire la verità non è mai venuta.

Anna è cristiana ed è benestante, due caratteristiche che non le permettono di mischiarsi con la gente come me.

Chiacchieriamo del più e del meno, fino a quando non entra la professoressa di storia e l'aula si riempie. La voce dell'anziana signora in cattedra racconta le vicende che avevo letto poco fa e, per non addormentarmi, prendo alcuni appunti, anche al fine di prendere un bel voto all'interrogazione.

L'ora successiva abbiamo letteratura, una delle mie materie preferite. Adoro il modo in cui i poeti mettono nero su bianco i loro pensieri. Da grande, quando avrò finito di studiare, diventerò una scrittrice e, magari, chi verrà dopo di me leggerà le mie opere e studierà la mia vita.

Sorrido al pensiero e mi costringo a smettere di sognare ad occhi aperti, così da non perdere altri minuti di spiegazione.

Il resto della giornata passa altrettanto velocemente e suona la campanella dell'ultima ora, che ci permette di tornare a casa. Sistemo con accuratezza tutti i miei volumi, perché sono valsi molti mesi di paga ai miei genitori, ed esco con la mia amica, chiacchierando di tutto e di niente.

Sono circa le tre del pomeriggio quando torno saluto Anna e mi avvio verso la mia piccola casa, canticchiando una melodia imparata l'ultima ora.

Salgo a fatica le scale in legno, che scricchiolano sotto il mio peso, dandomi l'impressione di cadere. Ho il fiatone quando raggiungo la porta in legno, che porta scritto il numero 89. Alzo il tappeto e prendo la chiave, per poi riporla ordinatamente sotto di esso, dopo averla aperta.

"Ciao mamma, sono a casa!" La mia voce riempie lo spoglio appartamento, che è solitamente vuoto quando torno a casa, ma oggi è mercoledì, cioè il giorno di riposo della mamma.

Mi chiede com'è andata, come da routine, e le dico che oggi non mi ha insultata nessuno. Sono felice per questo, dato che succede raramente.

"Ti ho lasciato qualcosa per far merenda" Il sorriso di mia madre è spesso triste, come se lei non volesse davvero sorridere, ma deve. Quando lo noto cerco di fare il possibile per rendere il suo sorriso vero, ma capita che, alle volte, fallisca e la sento piangere nella sua camera da letto.

"Grazie" Sfoggio il mio sorriso migliore e corro in cucina, molto affamata. Il mio sorriso si amplia quando vedo un piatto colmo di biscotti al cioccolato, i miei preferiti. Riempio un bicchiere con del candido latte e mi siedo sul piccolo divano che c'è in salone.

Papà, prima di lavorare in fabbrica, era panettiere presso una delle migliori panetterie della città e i suoi datori di lavoro gli regalarono un piccolo televisore, che è posizionato di fronte al divano.

Prima di iniziare a fare i compiti, guardo sempre qualcosa in televisione, giusto per rilassarmi un po', così da avere la mente fresca per studiare al meglio.

La scatoletta si accende con un 'bip' metallico e lo schermo viene invaso da immagini, colorate da ogni tonalità di grigio. Quando ero più piccola non capivo come i colori potessero diventare così monotoni, ma ora ho capito che la tonalità di grigio corrisponde a quanto è chiaro un colore nella realtà.

Ridacchio della mia ingenuità e concentro la mia attenzione sul televisore, in cui compaiono i volti di tre persone. Uno ha circa l'età di papà e ha dei baffi scuri, proprio come i capelli. Gli altri due si somigliano molto, nonostante la differenza d'età, e mi chiedo pigramente se sono parenti. Hanno entrambe i capelli chiari, biondi credo, visto quant'è chiaro il grigio del televisore. Anche gli occhi sono molto chiari e me li immagino verdi o azzurri come quelli di Anna. Il più vecchio sembra avere circa trentacinque anni, mentre il più giovane dovrebbe avere la mia età o qualche anno in più, ma non supera i quindici anni.

Anche a me piacerebbe essere in televisione e una lieve morsa di invidia mi prende, ma sono sicura che per presentare il mio libro andrò anche io su ogni schermo.

Non capisco quello che dicono, perché sono troppo piccola per capire cos'è a cosa serve una legge. Mi limito, perciò, a memorizzare il viso del ragazzo, che, a quanto dice il signore con i baffi, si chiama Luke, Luke Hemmings.

1945Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora