Capitolo 1

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Non sono mai stata come le altre ragazze. Di certo non ero come mia sorella. Mia madre la disapprovava, ad alta voce, per quel suo continuo flirtare, ma a bassa voce si scambiavano confidenze e le diceva: ero così alla tua età! Così ovvero attraente, magnetica e anche, ma i ragazzi se ne accorgevano troppo tardi, manipolatrice. Entrambe avevano il classico sguardo che uccide o ammalia, a seconda delle circostanze, occhi lunghi, sottolineati dalla matita nera e capelli morbidi e non troppo ricci, fianchi larghi, seno generoso, gambe lunghe. Le regine della casa, le chiamava mio padre, un po' divertito un po' seccato. Era una gara, tra loro, per chi riusciva ad avere l'ultima parola. Così, avevano finito per dividersi i regni: a mio padre il mondo del lavoro, a mia madre quello delle relazioni e dell'educazione dei figli.
Quanti luoghi comuni. E io non facevo eccezione. Ero bruna, ma con capelli dritti che oggi forse sarebbero un pregio, ma, negli anni ottanta della mia adolescenza, dicevano sciattume e il mio rifiuto di cedere alla permanente li rendeva ancor più oggetto di rimprovero. Avevo occhi tondi, comuni, non scialbi, ma normali e un fisico proporzionato. Però ero bassa. Niente gambe lunghe, nessun tipo di appeal e onestamente non ne sentivo la mancanza. Trovavo che tutta quella naturale seduttività comportasse una serie di fastidi che non ero pronta ad accollarmi: non c'erano vacanze nel percorso di una vera donna verso il successo. Non potevano esserci giornate in cui stravaccarsi o dare manate sulle spalle agli amici o avere un'aria meno piacevole. E poi coltivavo un genere di amor proprio che mi rendeva davvero difficile attuare tutta una serie di strategie atte a ottenere l'attenzione di uomini che, nella maggior parte dei casi, non possedevano, come posso dire, la stessa quota di piacevolezza.

Se per mia sorella avere una rivale in meno era un vantaggio, per mia madre io ero una vera fonte di disperazione. Non era tanto preoccupata di non riuscire a piazzarmi nel mercato dei matrimoni, ma non sopportava che le facessi fare brutta figura con i parenti, le cui figlie aderivano tutte allo stesso stampo. Non ero propriamente un brutto anatroccolo, non troppo, ero comunque curata, ma ero così diversa da sembrare davvero un pulcino finito per caso nella nidiata sbagliata. Il guaio era che gli altri continuavano e farmelo notare e che io non riuscivo a trasformarmi in un cigno. Nessuna rivalsa all'orizzonte. Nessun incontro con la mia vera famiglia, che mi avrebbe riconosciuta e in cui mi sarei potuta specchiare. 

Ora, e vi prego di perdonarmi se sono troppo diretta e cruda, il mondo in cui venni tirata su era pieno di donne e uomini di una certa intelligenza, alcuni anche molto più che benestanti, ma in questo stesso mondo l'inferiorità della donna era una dato mai messo in discussione e le molestie a suo carico la normalità. Nessun occhio nero o braccio rotto, troppo eleganti e colti per indulgere in simili cadute di stile, ma imparai subito che era meglio tacere che parlare, mostrarsi ubbidienti, non reagire a commenti sprezzanti sulla mia intelligenza e considerare le suddette molestie semplice affetto. Voglio dire, se un amico di famiglia ti pizzica il sedere quando hai tredici anni e fa commenti sulle sue dimensioni, devi saperci ridere su. Se uno zio ha la fissa di commentare costantemente il tuo seno, ma insomma è un uomo. Se una donna, un'estranea per carità, ti racconta di molestie pesanti o violenze, insomma, nasconde qualcosa, sicuramente, non darle corda.
Io questa storia del senso dell'umorismo non riuscivo né a capirla né ad accettarla. Cominciai ben presto a vestirmi con camicie grandi e jeans larghi, sperando di passare inosservata, suscitando l'ira di mia madre e l'ironia delle zie che si chiedevano, ad alta voce, se volessi farmi suora o lesbica e non sapevo quale delle due per loro sarebbe stata la scelta peggiore.
Il fatto è che quando ti viene insegnato a essere una vittima, e non te ne accorgi,lo resti per molti anni. Io stavo alla larga dai ragazzi e dagli uomini in tutti i modi, ma se si avvicinavano con cattive intenzioni non ero in grado di fuggire o di difendermi.
Bella fregatura, considerando che non ero certo una ragazza priva di intelligenza o di carattere. E poi c'era questo strano corto circuito per cui, istintivamente, coltivavo l'idea che gli uomini o non mi trovassero attraente o volessero farmi del male.
La mancanza di un filarino, di un abbraccio, di un contatto fisico la sentivo sì, ma come sentivo la mancanza di una spada elfica: desideravo ciò che sapevo essere impossibile, quindi perché farmene un cruccio? E poi ero piena di interessi e di amiche e di amici e studiavo, non tantissimo, quel tanto che bastava garantirmi la possibilità di andarmene di casa dopo i diciotto anni.
Ma proprio quell'anno mio padre si ammalò, cominciarono i problemi finanziari e mia madre ci teneva a che mi laureassi, per farli tutti contenti, visto che le cose andavano male. Così mi iscrissi all'università, cavandomela e pensando che stavo rimandando solo di qualche anno la mia fuga. Trovo inquietante,oggi, che la considerassi una fuga e non il mio legittimo diritto a farmi una vita. Comunque mio padre si riprese e io mi laureai col massimo dei voti.
A quel punto si ammalò mia madre, ma i problemi economici erano risolti, quindi perché non ti specializzi e nel frattempo resti in casa, a farle compagnia? Mia madre era depressa, come lo era stato mio padre, ma quella parola, depressione, non poteva entrare in casa, quindi era una strana inspiegabile debolezza. Di cui presto avrei sofferto anche io.
E mia sorella? Lei studiava, con calma e felice di starsene con i miei. Anche se, in realtà, con loro ci stava poco perché per via delle tante lezioni da seguire non faceva la pendolare. Aveva un suo appartamento, diviso con altre cinque ragazze e il numero di feste in genere superava quello delle sessioni di esame di tutte loro. Anche se, in realtà, a studiare non ci pensava proprio.

Ora, giusto per capirci, non eravamo sempre tristi e tra le lacrime. C'era pur sempre una parvenza di rispettabilità da mantenere, quindi le feste comandate, i compleanni, l'estate erano affollati da parenti e amici, mia madre si tirava su dal letto a forza di Prozac e io pensavo che mi si sarebbe paralizzata la faccia nel ghigno di joker a furia di sorridere agli ospiti.
Cosa non del tutto negativa, perché i miei ricordi, a dispetto di quello che so, sono ammantati di una quantità non veritiera di gioia. Ricordo molte risate, molte bevute, molte partite a carte e tornate di pettegolezzi memorabili. Fu proprio in quel periodo, mentre mia madre cominciava a riprendersi, che conobbi quello che poi sarebbe diventato mio marito e alcune persone che sarebbero stati i miei migliori amici per i successivi dieci anni.

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