Se la tua famiglia non ti ama davvero, non solo non impari cosa voglia dire, ma diventi anche una imbranata sentimentale, confusa, priva di un dizionario minimo per comprendere il mondo degli affetti. Io almeno lo ero.
Che mia madre non mi amasse molto, nonostante le dichiarazioni pronunciate ad alta voce in presenza di amici e parenti, era fin troppo chiaro e non era solo questione di complicità, di complimenti, di regali. I segnali che mia madre non provasse veramente affetto nei miei confronti li ritrovavo prima di tutto nel suo non difendermi mai dalle aggressioni altrui. Le sue amiche e i miei zii avevano la pessima abitudine di prendersi gioco di me ad alta voce: Tua figlia è sempre con la testa per aria! Ma capisce quello che le sto dicendo? Svegliati, bella addormentata! Ero la stupida della famiglia e lei non li ha mai contraddetti. Ero la brutta della famiglia: Ma te le vuoi sistemare quelle sopracciglia? Non vorrai vestirti sempre così! Ma c'è almeno qualcuno che ti guarda?
Poi c'erano i problemi di salute, che sembravano sempre di un certo valore quando si trattava di mia sorella, ma inutili lamentele quando si trattava di me che, evidentemente, non possedevo sufficientemente forza di corpo e carattere per sopportare piccoli fastidi.Non vorrei sembrare, ecco, una lamentosa proprio in questo momento e in fondo non ha neanche senso mettersi lì a ricordare questi episodi a oltranza. Vi risparmierò il lungo elenco che si affaccia in questo momento alla mia mente. Diciamo soltanto che non sarebbe stato male avere un padre che bilanciasse la situazione, ma anche lui preferiva spudoratamente mia sorella. Lei, che aveva tre anni meno di me, era la sintesi di tutto quello che, secondo i miei, era desiderabile in una bambina e poi in una donna: sorrisi timidi e sguardo basso, senso dell'umorismo, carattere di ferro, amore per la giocosità, per le feste, per lo stare in gruppo.
Io non ero la versione femminile di Leopardi (o almeno di come si vuole ricordare il nobile poeta): amavo sì le mie sudate carte, ma amavo anche le relazioni con il prossimo e le feste, mi piaceva, anche se non oscillavo seducente sui fianchi. È che non capivo come si potesse essere amici di così tante persone contemporaneamente. Non capivo come si potesse seguire un certo trend nel vestire, nel pettinarsi, persino nei libri da comprare. Per restare nei luoghi comuni di una certa narrativa: sì, ero anche quella che spesso e volentieri preferiva leggere un libro invece che perdere tempo con insulsi parenti e altrettanto insulsi amici (soprattutto quelli di mia sorella). Chissà quante volte avete letto storie simili ed è strano ma sono tutte vere. Ci sentiamo così sole, ma siamo in tante. Se solo lo avessimo saputo allora, da giovanissime.
Questo voler rivendicare la mia identità e la voglia, a volte, di starmene per i fatti miei, non poteva funzionare in una famiglia godereccia come la mia. Famiglia che, come ho raccontato, oscillava tra grandi passioni e baratri infernali, mentre io cercavo di capire se si potesse vivere divertendosi, ma senza correre ogni volta il rischio di precipitare. Era un continuo tira e molla tra le loro richieste e la mia ostinazione. Cedevo quasi sempre, a dire il vero, anche perché quando sei molto giovane pensare di esistere senza la tua famiglia è impossibile, equivale al non esistere.
È una fregatura carpiata: non ti amano, ma ti sembra di non poter fare a meno di loro.
Quando uscii dal mio guscio, quando andai oltre la cerchia di sorella e cugine, non mi fu facile avere delle amiche. Finivo sempre per trovarne che somigliassero a mia madre o a mia sorella. Naturalmente non me ne accorgevo e non capivo perché finivo sempre per farmi del male. D'altra parte, quel modo di vivere le relazioni, basato molto sul dare e sull'avere, su ricatti morali, su conversazioni passivo aggressive, era l'unico linguaggio che non solo conoscevo, ma che anche consideravo legittimo.
Crescendo, cominciando a notare i primi ragazzi, mi innamoravo ovviamente di individui che avrebbero trovato attraente soltanto mia sorella e, consapevole, di non competere, cercavo la relazione con quelli scialbi, meno attraenti, ma anche meno pericolosi e interessanti agli occhi di lei. La prima volta che feci sesso, ed ero davvero molto grande, lo feci giusto per sapere di che si trattava. Non è un granché, pensai, avrei potuto aspettare altri dieci anni.
Lo feci con un amico di cui mi fidavo, che trovai attraente per dieci minuti e che comprese molto presto come impedirmi di cercare altre storie. Ben presto decise anche che avrei dovuto ampliare le mie esperienze, che mi piacesse o no. Che lo volessi o meno. Me ne liberai solo quando partì per inseguire la donna dei suoi sogni, sia benedetta.Per questo quando conobbi mio marito mi sembrò quasi un miracolo. Per cominciare, la sua era una comunicazione lineare: non c'era ironia costante nel suo modo di parlare o sarcasmo; non era violento, neanche con le parole e non lo era con nessuno, non solo con me; non era interessato a tutte le donne che lo corteggiavano con una certa insistenza; la mia intelligenza era un requisito fondamentale e, soprattutto, trovava folli i membri della mia famiglia. Mi diceva apertamente che sì, avevo capito bene sin dall'inizio: io non appartenevo a quel branco e che, sì, c'era vita al di fuori della propria famiglia. Avevo ventidue anni allora e lui, eravamo soltanto amici, mi disse: «Clara, lascia perdere. Non cercare di capire, non cercare di cambiarli. Pensa solo ad andar via di lì, pensa a farti una vita, magari lontano da casa. Concentrati sulla bellezza che potrai incontrare, su quello che puoi diventare.»
E io gli credetti.
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Se non è amore
RomanceÈ mai stato vero amore? Clara si chiede se il suo matrimonio sia nato su una bugia e se stia ora crollando a causa di un tradimento. vale la pena lottare per salvarlo?