🪶S A F F R O N

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Due giorni dopo.

«C'è qualcuno per te.» mi sorride l'infermiera dal rossetto viola e i denti macchiati. Da quando ho riaperto gli occhi, c'era sempre lei accanto a me. E tutte le volte, aveva delle macchie viola sui denti. Ma non va mai in bagno? Non se ne accorge? O peggio, nessuno ha la decenza di dirglielo? Potrei farlo io. Mi infastidisce, quella macchia tra i suoi incisivi. Macchia.

Macchia. Questa parola cerca di trascinarmi indietro. Scavo nella memoria, alla ricerca del motivo per il quale è così importante, ma non trovo niente. Cos'è successo, prima dell'incidente sul ponte? Mi hanno detto che potrebbero volerci molti giorni, prima che le tessere del puzzle tornino al loro posto. Mi sono svegliata spesso nelle ultime quarantotto ore, solo per svenire di nuovo, ogni singola volta.

Ho ripreso i sensi solo stamattina. L'infermiera è entrata nella mia camera accompagnata da un dottore con i capelli argentati e l'aria molto stanca, che mi ha visitata accuratamente e alla fine, tra luci fastidiose, un dito da seguire e un paio di domande, si è ritenuto più o meno soddisfatto. Ho risposto perfettamente a tutti i quesiti matematici. E anche a quelli di logica. Ma quando mi ha fatto delle domande personali, ho preferito stare in silenzio.

Soprattutto quando mi ha chiesto: «Ricordi il tuo nome? Ce l'hai detto ieri, prima di perdere i sensi.»

Non ricordo di averlo fatto. Non ricordo l'albero colpito da un fulmine, né il pick up che ha invaso la nostra corsia per evitarlo. Non ricordo nemmeno quando l'auto ha sfondato la barriera del ponte, cadendo nel fiume in piena.

Ci vuole tempo, hanno detto i dottori. Il fatto è che io non ho tempo.

Quando sono tornata lucida, ho ignorato le domande del personale, fingendo di non ricordare niente, e ho chiesto all'infermiera dai denti viola di fornirmi tutto il possibile che potesse stimolarmi la memoria. Mi ricordo di Elger e dell'autogrill. E non mi è sfuggito il fatto che, di lui, non mi abbiano ancora detto niente.

«Lo faccio entrare?» la voce bassa dell'infermiera, arrochita da anni di sigarette, mi induce a sollevare la testa. Mi fa male muoverla, me l'hanno fasciata molto stretta e solo un'ora fa mi hanno concesso di rimuovere le bende. Anche il polso sinistro è fasciato. Meno male che non sono mancina. Ho anche due costole incrinate e restare sdraiata è un inferno, perfino una cosa semplice come respirare è diventata una tortura. Tuttavia, in cuor mio so di non potermi lamentare. Sarebbe potuta andare peggio. Molto, molto peggio.

«Chi è?» le chiedo, immaginando che sia un altro specialista.

La sua risposta, però, mi lascia di sasso: «Forse sarebbe meglio se te lo dicesse lui... potrebbe aiutarti a ricordare, cara.»

Le mie dita stringono una flash card, tenendola sospesa a mezz'aria. Ce ne sono tante, sparpagliate sulla coperta. Prima che l'infermiera mi interrompesse, stavo cercando di usarle per vedere se mi tornava in mente qualcosa. Voglio dire, ricordo dov'ero e con chi, ma non di cosa abbiamo parlato. La mia mente ha cancellato gli ultimi due minuti dentro quella macchina e questa cosa non mi dà pace.

«Ok.» rispondo, anche se non ho voglia di parlare con nessuno. Però devo sforzarmi. Qualsiasi cosa, pur di capire che sta succedendo.

Poi vedo l'infermiera avvicinarsi e intuisco che sta per mettere via la scatola con le carte, ma la blocco subito.

«Non tocchi niente.» le mie dita stringono forte la flash card che mi sta tenendo impegnata da circa un minuto buono, e la donna desiste, congedandosi. Lascia la porta aperta e la sento dire qualcosa a bassa voce dal corridoio.

Tra l'altro, non credo di trovarmi in un ospedale. Non ho visto altro se non questa stanza, perché non ho ancora provato ad alzarmi, ma questo posto è troppo... curato, troppo raffinato. Ha l'aria di una clinica privata, o qualcosa del genere. La parete alla mia destra è occupata da una grande finestra che si apre su un balconcino, dal quale vedo un cortiletto grazioso, con gli ultimi residui di neve che coprono le aiuole angolari.

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