Marco

259 18 10
                                    


1. Siamo i mostri e le fate

"Siamo i soli svegli in tutto
l'universo
E non conosco ancora
bene il tuo deserto
Forse è in un posto del mio cuore
dove il sole è sempre spento
Dove a volte ti perdo,
ma se voglio ti prendo
Siamo fermi in un tempo così,
che solleva le strade
Con il cielo ad un passo da qui,
siamo i mostri e le fate
Dovrei telefonarti,
dirti le cose che sento
Ma ho finito le scuse
e non ho più difese"
Due vite - Marco Mengoni

••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••••

Marco aveva come l'impressione che tutto ciò che gli fosse accaduto negli ultimi due anni, fosse un regalo meraviglioso. Qualcosa di così follemente inaspettato che forse neanche lui sapeva in cuor suo, se se lo meritasse davvero.
I risultati "lavorativi" erano sempre per lui qualcosa di così imprevisto, grande, gigante forse, che non riusciva ad evitare di chiedersi se le cose potessero essere gestite in un altro modo. In un modo migliore, forse con più trasporto, forse con meno trasporto. Tutti gli facevano i complimenti perché le cose gli venivano sempre così bene e lui rispondeva con un lieve sorriso sul viso. Si grattava sempre sotto il mento quando gli veniva fatto un qualunque apprezzamento, e forse negli anni aveva imparato a conviverci, ma ancora non pensava di meritarseli pienamente. Solo le persone che lo conoscevano davvero, sapevano che in verità quello fosse frutto di un intenso e lunghissimo lavoro. Certo, sapeva di avere delle doti innate non comuni, quello lo sapeva e ne era consapevole, ma questo non significava nulla per lui, era a tutti gli effetti una semplice base di partenza. Poi Marco passava ore e ore a rifare tutto, a rimodulare ogni cosa fino a quando non era soddisfatto al 100% cosa che comunque non accadeva mai, perché lui non era mai contento, almeno non del tutto. Glielo diceva sempre la sua psicologa che il peggior giudice di se stesso era sempre e solo lui, e che solo quando avrebbe iniziato ad essere più leggero e pretendere un po' meno forse, la sua ansia non sarebbe sparita nel nulla, ma sicuramente sarebbe migliorata notevolmente.

E nella vita privata per Marco era lo stesso. Sempre troppo incasinato, troppo insicuro, troppo sfiduciato. Non credeva nell'amore, o forse ci credeva così tanto che non riusciva ad accontentarsi di qualcosa di superficiale. Per questo finiva spesso per stare solo, senza nessuno con cui condividere le sue gioie più forti e le sue paure più grandi. Non ci riusciva mai a lasciarsi andare, a fare qualcosa con leggerezza e alla fine si ritrovava le notti a non riuscire a dormire con l'ansia delle cose non vissute, delle opportunità non colte, della sua incapacità a vivere a pieno. La notte era sempre una fregatura per lui, perché se di giorno riusciva a non pensarci, quando il sole spariva, nel momento in cui si metteva a letto stanchissimo, ero proprio lì che il sonno lo abbandonava e i problemi sembravano quasi moltiplicarsi.
Ci stava lavorando, ogni giorno. Ma tutto sembrava andare sempre peggio, quando nonostante gli sforzi era incapace di vivere le cose come avrebbe voluto, perché dentro di lui lo sapeva che non c'era nulla che desiderasse più di sentirsi amato e amare allo stesso modo una persona, affidarsi e fidarsi a lui senza dubitare mai e senza averne paura.

C'era stato un periodo in cui aveva creduto di poter andare oltre le sue convinzione, oltre i suoi limiti. Aveva conosciuto questo ragazzo, giovane, bello, incredibilmente bello, con degli occhi che gli entravano dentro, che gli avevano quasi tagliato l'anima a metà. Aveva sentito le farfalle nello stomaco, si era sentito così potente in quella situazione, che avrebbe potuto scalare l'Everest senza neanche accorgersene e senza alcuno sforzo. Ma poi il biondino aveva fatto la solita domanda che lo faceva allontanare tutte le volte, e il moro non era riuscito ad andare oltre neanche quella volta, e quando gli aveva detto con un filo di voce che lui non sapeva amare nessuno, neanche se stesso, gli era sembrata la normalità e aveva chiuso senza il ben che minimo rimorso. Perché Marco ogni volta che qualcuno lo metteva alle strette, ogni qual volta che qualcuno provasse a fargli definire qualcosa, inscatolarlo, chiuderlo in una definizione, scappava con la coda fra le gambe. Chiudeva così tutto il suo risentimento in un cassetto nascosto dentro il suo cuore, con una chiave a doppia mandata e non apriva più la serratura. Era gran bravo a non aprire in nessun modo, era bravissimo e evitare di pensarci nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi. Un po' come se quella persona non fosse neanche passata nella sua vita e intanto ad ogni tentativo fallito la parte di sé che ancora ci sperava, moriva un po' di più.

Caffè al limone (contro l'hangover) - Marco Mengoni e Mahmood 🤍Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora