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  Era fredda

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Era fredda. La lama del bisturi mi faceva venire i brividi a contatto con il collo. Non opposi resistenza, non provai nemmeno a fermarlo. Avrei accettato ogni suo movimento, come il morso durante il suo attacco di panico, se non si fosse fermato. Stava tremando e aveva gli occhi lucidi. Si impediva di scoppiare in lacrime e vederlo così distrutto... Cristo, avrei voluto prendere il Dottore e dargli fuoco. Arderlo vivo come su un rogo. Quel bastardo. Vedevo Rovere lottare contro se stesso come se volesse affettarmi e, allo stesso tempo, qualcosa glielo impedisse. La rabbia sfumava piano e anche il suo sguardo diventava man mano più limpido.

«Rovere. Va tutto bene.» mormorai.

Tenni il volume della voce basso. Non volevo spaventarlo o allarmarlo. Aveva bisogno di qualcuno di cui fidarsi. Una spalla su cui piangere. Un alleato, dopo decenni rinchiuso e circondato da facce nemiche.

Il ragazzo scosse la testa. Prima piano, poi sempre in modo più convulso. Lasciò cadere il bisturi e il tintinnio cozzò nel silenzio. Il suo respiro si fece intenso. Si prese i capelli tra le dita e arretrò. Uno, due, tre passi. Andò a sbattere con la schiena contro uno dei mobiletti e si rannicchiò su di sé. Non mi mossi. Non sapevo se avrebbe voluto. Eppure, vederlo in quelle condizioni... Cristo, mi spezzava ogni osso, ogni organo e l'anima. Si piegò sulle ginocchia e scivolò a terra, inginocchiandosi ai miei piedi. Chiusi le palpebre, inspirai una quantità d'aria fastidiosa per i miei polmoni e strinsi i denti. Non potevo lasciarlo solo.

Mi piegai davanti a lui, avvicinandomi piano. Stava soffrendo. Aveva quasi fatto del male a qualcuno. Sapevo che non se lo sarebbe potuto perdonare. Dovevo fare in modo che capisse che andava bene. Che non ero arrabbiato o ferito. Appoggiai le mani sulle sue, delicato. Rovere sobbalzò lo stesso, spaventato. Alzò la testa e mi guardò con gli occhi spalancati. Le labbra erano socchiuse. Sentivo il suo respiro affaticato. Accelerato.

«Va tutto bene. Stiamo bene.» rassicurai e aspettai.

Aspettai che la presa intorno alle sue ciocche si facesse meno forte, che sciogliesse le dita e i muscoli e mi desse la possibilità di prendermi cura di lui. Di abbassargli le braccia, cingerlo con le mie e, se necessario, portarlo in braccio fino alla nostra camera da letto. Rovere scosse di nuovo la testa. Secondo lui, lo sapevo, niente era normale. Niente era sicuro.

«Posso toccarti? Abbracciarti?» Le richieste erano caute e sapevo che avrebbe rifiutato.

Per quanto gli chiedessi il consenso per ogni movimento, aveva sempre qualche remora a lasciarsi andare. A farsi toccare. Ogni contatto umano lo spaventava.

Sentii il calore del suo corpo ancor prima di capire che si era mosso. Era piccolo e stretto contro il mio petto. Tremava ancora, ma ora potevo proteggerlo. Strinsi le braccia intorno a lui e accarezzai piano le zone di capelli che aveva stretto troppo. Lo sentii rabbrividire contro di me.

«Mi dispiace, Rovere. Non ero qui a prendermi cura di te. Ti ho lasciato solo. Mi dispiace.»

Il ragazzo scosse la testa e nascose il viso contro il mio collo. La mano tra i suoi capelli scese fino alle scapole e mi permisi un piccolo momento egoistico. Sfiorai il suo corpo in una carezza. Non ho idea di quanto restammo così, ma quando iniziarono a farmi male le gambe, sistemai meglio la presa sul suo corpo.

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