1.

14 2 4
                                    

La prima volta che il cellulare squillò erano le ventitré e trenta di un mercoledì. Non ricordo esattamente la data, ma doveva essere fine ottobre. Rammento solo - e il ricordo è tutt'ora molto nitido - che quella sera soffiava per le strade un vento gelido, anche se negli ultimi anni i primi sentori invernali giungevano a novembre inoltrato.

Non ero ancora andato a letto, strano direi oggi, poiché i miei orari abitudinari prevedevano che alle ventidue in punto, dopo qualche puntata delle molteplici serie tv che offrivano le nuove piattaforme in streaming, mi sarei coricato sotto le coperte in compagnia del romanzo che stavo leggendo in quel periodo, ma forse perché mi ero appassionato parecchio alla fiction, forse perché non ero abbastanza spossato dalle fatiche e dagli impegni giornalieri, mi trovavo ancora sul divano con la televisione accesa.

Di solito non lasciavo la suoneria del telefono attiva perché sussultavo ogni qual volta, nel silenzio della casa, partiva improvvisamente "Libiamo ne' lieti calici" de "La Traviata" di Verdi, cosa che, puntualmente, mi creava uno stato d'ansia e mi distraeva dalla visione del telefilm mentre cercavo di seguire la storia e scacciare un'infinità di pensieri che come sempre mi affollavano la mente.

Quindi ci vollero alcuni secondi di vibrazione prima che mi accorgessi che il cellulare si era inevitabilmente acceso. A quell'ora non poteva certo essere mia madre, a meno che non fosse successo qualcosa di spiacevole, ma conoscendola avrebbe aspettato il mattino seguente per riferirmi qualsiasi cattiva notizia, perché preferiva lasciarmi riposare tranquillo dato che sapeva che dormire era già abbastanza difficoltoso per me.

Inizialmente allungai il collo lentamente per riuscire a leggere il nome in sovrimpressione e decidere, in caso fosse stata qualche mia amica in vena di chiacchierare, di fingere che fossi già tra le braccia di Morfeo. Ma il nome che intravidi mi gelò il sangue. Dovetti sbattere le palpebre rilassate nella penombra del salotto più volte per rendermi conto che non mi stavo sbagliando. Giovanni Bellesini, detto Giò, un mio vecchio amico d'infanzia, mi stava telefonando dopo tutti questi anni in cui avevamo pressoché perso l'uno la strada dell'altro e lo stava facendo ad un orario non solo inconsueto, ma addirittura preoccupante.

Voltai lo sguardo nella direzione opposta e mi sollevai appoggiando i gomiti sulle ginocchia mentre mi afferravo le tempie con le mani. Giovanni Bellesini: quel nome mi scombussolava nuovamente tutto il corpo, mi faceva mancare il respiro, sudare.

Cercavo di mettere insieme il da farsi, quando la vibrazione cessò. Non ero riuscito non solo a prendere una decisione repentina per uscire in un modo o nell'altro da quella situazione, ma nemmeno a rimettere ordine nel vortice che in quell'istante mi passava per la testa. Afferrai il cellulare e mi alzai osservando lo schermo. Una chiamata senza risposta. Giovanni Bellesini. Giovanni.

Passaiuna mano trafelata sulla fronte e appoggiai l'apparecchio alle labbra. Il caloredello schermo acceso qualche secondo prima mi tranquillizzò un poco. Latelevisione proiettava immagini distratte sulle pareti colorando il mio voltodi riflessi psichedelici. Infilai le pantofole e mi diressi in corridoio.

IL PRINCIPE PERDUTODove le storie prendono vita. Scoprilo ora