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Lo zucchero si scioglie lentamente, i granelli densi e cristallini che luccicano a pelo del mio caffè. Lo mescolo, e il cucchiaio raschia il fondo della tazza: traccia una circonferenza imperfetta nell'abisso bruno e cigola quasi, raspando lo zucchero incollato sulla ceramica come la zampa unghiosa di un piccione.

Perché il caffè, penso. Non mi è mai piaciuto, soprattutto la sera.

In cucina, qualcuno parla, e una voce risponde. Altri timbri familiari si uniscono e si rimescolano in un sottofondo che, nella vuota vista del salotto, mi instupidisce. Mi raggiunge il rimbombo di una risata come il contraccolpo di un fucile; sorda e prolungata. Se anche in un altro momento mi sarei scossa, questa volta non me ne accorgo nemmeno.

Sento il ticchettìo degli istanti che scivolano via in un silenzio inerte, freddo d'indifferenza.

Assaggio il caffè, e mi scotto la gola. Per il fastidio, penso di appoggiarlo da qualche altra parte, purché non lo senta più vicino, ma la pigrizia sovrasta la scomodità, e rimango ferma sullo stesso punto.

Pensa a qualcos'altro. Sospiro, e l'aria passa con un fischio su e giù per la gola bruciata.

Da dove devo partire?

La luce si accende; un paio di occhi gialli mi scrutano, ma non restituisco lo sguardo. Il vuoto mi rincuora, e il mio silenzio incoraggia chi è venuto a farmi compagnia a fare altrettanto. La luce si spegne.

Resto immobile nella penombra del divano. Un rosso sgargiante sfavilla sul mio maglione, ma il freddo immobile, statico, mi punge lo stesso.

Che fai qui?, chiede.

Le luci dell'albero catturano la coda del mio occhio, l'attirano come un'esca, luccicano, luccicano, trascinano lo sguardo nell'infinito ballo della corrente. Assorbo le gocce di plastica che lampeggiano nel buio, con lenta monotonia, poi la ritmicità mi infastidisce. La coreografia delle praline è un cerchio chiuso di accensioni e spegnimenti scanditi, malinconici. Strizzo gli occhi, inebetita dal ticchettìo del tempo che sento scivolare via, dal far niente, e da una vaga indolenza. Il caffè mi scotta le mani.

Aspetto Natale, gli rispondo.

La mia risposta incontra il silenzio. Non so se è ancora lì o se n'è andato in cucina. Anche il basso del mio fratello con gli occhi gialli si unisce alla cantilena delle voci dietro l'angolo, ovattate dalla parete. Quando chiudo gli occhi, i bagliori delle luci colorate schizzano il buio di bianco. Forse è meglio così.

Voglio dormire? No, non voglio dormire. L'ultima cosa che voglio è procrastinare lo scontro tra me e me che proprio adesso divampa e infuria, e la mia testa lo emargina. Lo tiene fuori dal collettivo, lontano dal rovinare il momento, dal guastare l'animo altrui. È Natale!, penso, e se anche basta a farmi restare sola nel salotto buio, il mio egoismo non è abbastanza da sovrastare il senso di famiglia. Del tutto-va-bene.

Dei passi si confrontano con il mio brutto salotto scuro e serafico, marchiato da quella sua nota di tristezza che la mia presenza aggiunge e che non sono mai riuscita a lavare via: adesso ristagna sulle mura, sul divano, come un alone che identifica la presunta tragicità della mia riservatezza. Di questo, forse, non mi libererò mai: a quanto pare sono un libro aperto di emozioni talmente ovvie che me le leggono sempre tutti in faccia, anche quando io non capisco le fondamenta del problema, quale sono io. È tutto talmente insulso che è meglio tornare al momento, alla sera, alle luci. L'assenza di lampade accese non lascia trasparire la mia faccia, il mio volto e la mia espressione tanto ovvia e cristallina da decifrare, ma a quanto pare il mio esserci in sé compensa ciò che gli occhi non distinguono. Alla luce che d'un tratto si accende, quasi con una pausa d'entrata. Il mio universo si ingiallisce, e cade ogni pilastro di credibilità, e finalmente mi accorgo di quanto sembro patetica.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 28, 2024 ⏰

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