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Sarah


Il problema di avere un fratello di dodici anni più grande di te, pieno di amici e sempre in giro a fare cose da "grandi", era che quegli amici sembravano costantemente occupare la mia casa come un'invasione di cavallette.

Josh e la sua banda erano sempre lì: rumorosi, abbronzati, con i capelli ancora gocciolanti di lago e gli asciugamani buttati ovunque, pronti a spodestarmi dalla tv per giocare ai videogiochi o a svuotare la dispensa divorandosi tutto, biscotti compresi. Mi tiravano le trecce, mi facevano i versacci e mi nascondevano i giocattoli in giro per casa, ma alla fine li tolleravo per amore di Josh.

Era sempre stato un fratello protettivo, nonostante il divario di età, e sapevo che per me avrebbe fatto qualsiasi cosa, tranne prendermi sul serio quando mi lamentavo e urlavo arrabbiata: «mandali via tutti!» Sapeva che mi sarebbe passata nel giro di poco, tra uno sbuffo e l'altro.

Poi era arrivato Alexander. Io avevo cinque anni, Josh diciassette.

Alexander Donovan era il nuovo ragazzo del quartiere, quello con un'aura di mistero che sembrava renderlo speciale anche tra tutti gli altri amici di mio fratello. Figlio di due genitori medici sempre impegnati al pronto soccorso, passava più tempo a casa nostra che a casa sua. La madre, Miranda, aveva legato con la nostra grazie a uno scambio continuo di favori che andava dal «mi presti dello zucchero?» al «posso lasciare Alex a cena da voi? Ho visto che lui e Josh sono amici».

Alex aveva un fratello più grande di due anni, Lucas, ma era figlio di un padre diverso e viveva a Santa Barbara, trascorrendo a Seattle solo alcuni weekend.

Era con Josh che Alexander passava tutto il suo tempo.

Così, tra pomeriggi passati a studiare e serate alle stesse feste, erano diventati inseparabili.

E per estensione, anche io mi ritrovai a dover fare i conti con lui. Quanto a dispetti, il peggiore che avesse mai invaso casa nostra.

La prima volta che lo vidi, alto e con la pelle cotta dall'abbronzatura che lo faceva assomigliare a una grossa aragosta, entrò in cucina dalla porta sul retro. Io ero seduta al tavolo, affondata nella mia tazza gigante di cereali, mentre mamma era sotto la doccia. «Ciao, tu devi essere la baby Sheridan della casa» annunciò, con un mezzo sorriso divertito.

Sollevai lo sguardo, accigliandomi. Tenevo ancora in mano la mia matita per colorare la sagoma di una principessa Disney, sul libro dei disegni che mi aveva comprato Josh, ma il soprannome che avevo appena sentito mi fece stringere i denti.

«Io mi chiamo Sarah» lo corressi con il tono più serio che potessi trovare, «non baby Sheridan. Quello è il mio cognome. Del mio papà.»

Lui sollevò un sopracciglio, poi scrollò le spalle come se non avesse importanza.

«Baby Sheridan suona meglio. Mi piace di più.»

Il sorriso gli si allargò, e solo allora notai la maglia sdrucita con la faccia terrificante di un tizio sopra. Era il Joker, ma questo lo avrei scoperto solo crescendo. All'epoca mi sembrava un cattivo dei cartoni, e non mi fidavo di chi portava addosso un cattivo.

«Non è che sei un ladro?» chiesi sospettosa, cercando di ignorare il fastidio crescente. «La mamma dice che non devo parlare con gli sconosciuti.»

Lui rise. Una risata breve e sguaiata da adolescente, come se non si aspettasse davvero la domanda. Poi, invece di rispondere, tirò uno sgabello e si sedette dall'altra parte del tavolo, inclinando la testa per fissarmi.

WILD HEARTSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora