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mi tolgo il cappotto mentre poso le chiavi sul mobiletto tarlato all'ingresso. rimango due secondi a fissarle, scintillanti nella penombra dell'appartamento. è vecchio, angusto e sinceramente mi ha sempre fatto un po' paura, quindi la prima cosa che faccio quando ritorno a casa è accendere la luce, sempre. le mie mani, però, non volano svelte sull'interruttore. non stavolta. invece, mi smarrisco a fissare il luccichio delle chiavi e, con spasmodica lentezza, osservo a pupille dilatate il bagliore dei lampioni entrare nel piccolo salotto.
è tutto sbagliato.
inizio a piangere.
non capisco se lo sto facendo per tristezza, per una patetica paura di dover prendere in braccio me stessa e il futuro (non ho abbastanza forza nei muscoli, si sa) oppure perché sono profondamente sollevata.
il mio corpo ha un rilascio e mi ritrovo accovacciata per terra, accanto all' appendiabiti. dal soffitto pendono sottili e trasparenti, i fili, si sforzano a sollevarmi e paro un burattino senza ossa, cuore, anima, cervello.
il telefono vibra due volte.
"menomale che t'ho detto di farmi sapere quando tornavi a casa eh"
"come va? fatto quello che dovevi fare? non ti maledire comunque"
mi scuote un nubifragio di singhiozzi.
avverto il disgusto e l'odio verso me stessa strisciarmi lungo la spina dorsale.
mi alzo di scatto che le ginocchia hanno una scarica elettrica. vado a bere in cucina, dove non è mai buio perché di fronte c'è la finestrella del bagno del signor carmelo, che è costantemente aperta e lui ha l'alzaihmer, quindi lascia sempre tutte le luci accese.
non mi devo maledire.
non mi devo maledire? e cosa devo farne di me, allora? devo forse baciarmi la guancia ogni volta che commetto errori e desidero per la mia stessa mal riuscita nel mondo?
improvvisamente mi immagino a ottant'anni, sulla vecchia sedia a dondolo che sta nel salotto. messa lì, sbattuta e debole, che marcisco senza più neanche la mia coscienza a tenermi salda.
"se perdo quella è un macello" avevo detto alla psicologa due settimane fa.
"se perdi quella per un po', ti rialzerai da terra"
a quel punto mi ero arrabbiata da morire e il resto della seduta era scivolato via nel silenzio punitivo e in una spirale blu di sensi di colpa.
mi amo così tanto da odiarmi. odio il mio cervello, la fitta rete di pensieri, l'intrusività che li colora, le lingue striscianti delle paranoie.
prendo in mano il telefono e indugio su quei due messaggi.
non è giusto che qualcuno pensi a me e aspetti mie notizie, mi dico. neanche se questo qualcuno mi ama, perché è totalmente nocivo permettere che io, col mio deterioramento, entri nei cuori e nelle menti altrui.
"scusa se non ti ho avvisato. sto a casa e sì ho fatto. tutto ok"
mi risponde quasi subito. mi sento in colpa ancora.
"vuoi che ti chiami?"
perché l'amore mi fa così tanta paura?
mi assale un attacco d'ansia e vado a vomitare. mi bruciano il petto e il naso quando rispondo. non riconosco la mia voce e sicuramente neanche lui.
"allora?"
"allora cosa?" tossisco.
"tutto bene?"
"sì"
"le stai prendendo le medicine?"
ha una voce calda, bassa, ricolma di dolcezza e ciò mi fa venire voglia di sbattere la testa contro la ceramica del cesso.
"sì. te tutto bene?"
"mari"
il mio nome suona come un rimprovero. lo stai facendo ancora, sembra voler dire. ti stai di nuovo eclissando.
"dimmi com'è andata. raccontami, no?"
"ma non hai da fare?" la mia voce mi tradisce e si libera un singhiozzo. tanto l'aveva già capito. lui sa tutto, sempre.
"cioè, lì da te sono le una e hai... lezione alle sette, giusto? o lavori domani?"
parlo velocemente ma col tono sconnesso, spezzato, così acuto da irritarmi. mi tremano le mani mentre sono in ginocchio davanti al cesso.
"non me ne fotte un cazzo. parlami. voglio sentirti. non ci sentiamo mai"
sta infliggendo colpi su colpi con quella sua lama immaginaria, affilatissima, pulitissima e così sottile da penetrarmi ogni singola terminazione nervosa.
"scusa"
"non ti permettere. senti, se non vuoi raccontarmi va bene lo stesso, ma voglio capire che hai, come stai"
sbuffo. vorrei che questa telefonata finisse. vorrei lanciarmi dal balcone e schiantarmi sull'asfalto. vorrei vedere me stessa respirare a tratti, con la schiena rotta e in preda a spasmi.
anche lui sbuffa. questa volta vorrei vedere lui. me lo immagino a letto, nella camera piccola e asettica del campus in cui sta, con il panorama giapponese a fargli da sfondo. quei suoi occhi piccoli e scuri, lucidi e stanchi perché non ammetterà mai di voler andare a dormire, la barba sul punto di ricrescergli, i ricci che gli baciano le palpebre.
"sto di merda. non è bello licenziarti dal lavoro che ti piace perché la depressione e l'ansia di costringono, sai? adesso mi ammazzo"
mi pento subito. di tutto. del tono, delle parole usate, del freno che non ho fatto in tempo ad usare.
c'è silenzio. chissà se è ferito o se si aspettava che scoppiassi in questo modo. chissà quanto si sta impegnando per trovare parole giuste, chissà se sta pensando invece di riattaccare e basta.
"domani pomeriggio ho l'ultimo esame. poi prendo l'aereo e vengo"
sorrido. quanto devo essere egoista per strapparlo alla sua vita?
"no. no, non puoi. non puoi perché tu—"
"non mi interessa, ho già deciso. non ti lascio andare così. non ti lascio. te l'ho detto l'anno scorso e non cambio idea. hai capito?"
sembra divertito mentre parla, ma io so che quando è triste, incazzato o semplicemente stressato parla mentre ride e intanto quegli occhi lucidi si imprimono di nuovo nella mia testa, come un fotogramma in bianco e nero. come un memorandum che fa "ecco come fai sentire le persone attorno a te"
"non puoi mandare tutto a puttane adesso, per me. ci saremmo visti il mese prossimo, no?"
"no"
"vabene. vai a dormire ora, ne parliamo domani"
"ti amo"

per sempre (per un po')Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora