2. Zona d'ombra

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Realizzai quanto mi fossi abituata alla presenza di Tobias soltanto quando, uscita da scuola, non lo trovai. Aveva preso l'abitudine di aspettarmi lungo le palizzate, nonostante, come gli avevo già antipaticamente ricordato, non facesse parte degli accordi. Ricordai che anche lui, oltre me, aveva una vita, e che probabilmente si stava solo facendo gli affari suoi.

Ci è rimasto male per quello che gli ho detto?

Mi morsi la lingua.

Non avevo mai avuto un vero amico e mi chiesi, con lieve imbarazzo, se tra me e Tobias stesse nascendo un'amicizia, se al nostro prossimo incontro avessi dovuto domandargli come stava, se tra amici ci si scambiasse domande personali, intime, o se non ce ne fosse il bisogno, perché ogni cosa viene spontanea.

Mi chiesi persino se io e lui potessimo diventare amici.

Raggiunsi le palizzate di legno che contenevano il centro abitato. Racchiudevano anche una parte di foresta, come una riserva, e il sentiero si estendeva da casa mia, in una collina appartata, a St. Leonum, costeggiando la montagna.

A quell'ora la piazza brulicava di persone.

Dal momento che la maggior parte della foresta attorno a St. Leonum era di proprietà di mio padre, preferivo allungare la strada piuttosto di attraversare il centro, ma quel giorno qualcosa mi bloccò le gambe. Non sapevo se mi spaventavano più le persone o l'idea di un altro sacco di juta sulla testa, il che era ridicolo; e dal momento che per il secondo avevo già trovato una soluzione, di nome Tobias, per il primo avrei dovuto arrangiarmi. O almeno, questa fu la scusa che mi raccontai.

Devi solo attraversare la piazza, forza.

Camminai davanti a un gruppo di ragazzi della mia scuola. Era una scuola molto piccola e ci conoscevamo tutti, almeno di nome. Sedevano su un telo in riva al lago, ridevano e tracannavano disgustose lattine di Coca Cola.

I loro sguardi virarono subito su di me e non seppero più come camuffare il fatto che avevano smesso di parlare in sincronia. Con molta noncuranza accelerai il passo, ma l'istinto mi spinse a guardarmi alle spalle. Tra di loro si era alzata una biondina che a occhio e croce doveva chiamarsi Rachele. Ricordai che aveva provato più volte a coinvolgermi nelle attività scolastiche e ora aveva tutta l'aria di volermi salutare; prese la mira con le lenti degli occhiali e mi puntò addosso quei curiosi occhietti azzurri. Il suo sorriso zuccheroso mi irritò; accelerai.

Pur di sfuggirle mi infilai in uno stretto passaggio, fra due edifici, una volta appartenuti al vecchio tessitore. Sapevo che lì dietro doveva esserci un magazzino o per lo meno un sentiero attraverso cui un tempo i carri consegnavano le stoffe.

Mi trovai, in effetti, sotto la tettoia di un ex magazzino. Mi colpì, oltre al brusco abbassamento della temperatura, un puzzo di immondizia e di qualcos'altro che non riconoscevo, ma che era capace di pungere l'olfatto come fa l'acido sulla pelle; provai di colpo una tristezza oppressiva e latente che mi lasciò confusa. Ero certa che non mi appartenesse; o meglio, non del tutto. Poi, udii un ticchettio familiare e l'eccitazione mi portò subito a pensare a Jenna.

Mi guardai attorno, ma non vidi nessuno. A un'analisi più attenta del mio sentire, constatai che il mio famiglio era ancora distante dal punto in cui mi trovavo.

Il tetto del magazzino di legno giaceva crollato alle mie spalle. La casa era disabitata, sventrata dal tempo, dai ladri e dagli ubriaconi. Come pelle lacerata, i resti di una grande tenda frustavano le mura esterne. Le vetrate che un tempo brillavano di luci ora tappezzavano il terreno, sparse in frammenti.

Poco dopo un'ombra si avvicinò, portando con sé un ringhio di avvertimento: un cagnaccio dal pelo bruno marcò il territorio con arroganza.

In modo del tutto incomprensibile, comparve una figura con indosso una tonaca nera lunga fino alle caviglie. L'ombra dell'ambiente si era addensata in pochi attimi per dare forma al suo corpo tra volute d'aria torbida.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 15 ⏰

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ROXANNE. L'Ultimo IncantoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora