1. L'incubo da cui tutto ebbe inizio

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Buio, a tratti asfissiante e cavernoso. Inodore, apparteneva a nessun mondo. Avvolgeva Jenna, l'allontanava da me, trasformava il suo profilo di lupo in un alone indistinto. La mia voce, i miei richiami non riuscivano a raggiungerla; dalle labbra usciva solo un fiato brinoso, le parole si frantumavano in microscopici atomi di nulla, e in quel pulviscolo, in un gelido istante, la certezza che Jenna era scomparsa mi fagocitò per sempre.

Il nero mutò in bianco: neve.

Scrutavo inquieta un sentiero di impronte: non portavano in alcun luogo, l'occhio della mia coscienza si perdeva in un anonimo spazio sconfinato, il regno dell'inesistenza. Silenzio.

D'un tratto, la tachicardia esplose nelle orecchie. Mi svegliai in affanno, con un sobbalzo, il terrore in gola, e gli artigli di Jenna che scavavano nel mio braccio, agitata e offesa per aver creduto di averla persa.

Il dolore e la vista del mio famiglio scalzarono il panico, fungendo da coordinate per tornare alla realtà: Rose bussava con insistenza. La sua voce era un ronzio, simile a un canale radio mal sintonizzato. Immaginai che mi stesse pregando di indossare gli abiti che mi aveva preparato e di andare a scuola.

Dopo un sogno del genere, non mi ritenevo colpevole se quella mattina mi sentivo nervosa più del solito. Bastò l'ennesima provocazione da parte di un compagno di classe, sui miei occhi gialli da strega, che la mia mano serrata a pugno si scagliò contro la sua mascella.

Finalmente, mi cacciarono dall'aula.

Stizzita e con la mano dolorante, attraverso l'uscita secondaria raggiunsi il cortile sul retro e mi inoltrai ben oltre il perimetro recintato.

Primo giorno d'autunno. Tiepide dita di luce giocavano con il vento e le fronde dorate degli alberi. Respirai a pieni polmoni, fu come bere d'un fiato una generosa quantità di energia.

Voltato di schiena, toccai una spalla al nostro giardiniere. Jack rise; era sorprendente che una voce così giovane abitasse un corpo così magro e stropicciato. «Cos'hai combinato questa volta?», chiese.

«Cosa ti fa credere che io abbia combinato qualcosa?»

Il vecchio mi rivolse un sorriso tenero, poi scrutò tra gli alberi. «Sei un fiore che sta sbocciando, bambina mia. Hai bisogno di aria, di sole, di meditare e di leggere buoni libri. I fiori sanno da soli come sopravvivere, come ogni creatura vivente. Lì dentro, tra quelle vecchie mura... cosa potrai mai vivere.»

«Io continuo a pensare che tu mi nascondi qualcosa. Mi conosci troppo bene.»

Rise, e non era affatto una risata di circostanza; lui rideva spesso, il più possibile, con tutto il viso e tutta l'intensità di cui era capace.

«Allora, cosa hai combinato?»

«La mascella di un mio compagno di classe potrebbe essere inciampata tra le mie nocche. Non ridere! Fa sempre battute squallide, sembra che mi abbia preso di mira. Max. Ha il nome di un cane, non credi?»

«Forse vuole comunicarti qualcosa, ma non sa come farlo.»

«Non è una giustificazione.»

«Nemmeno l'uso della violenza ha giustificazione.»

«Lo so, nonnino.»

Rise più forte.

Jack ricambiò la mia occhiata divertita e si appoggiò a un rastrello senza denti.

«Hai nipoti?» gli domandai a bruciapelo. Era una sorta di gioco, tra noi due, dato che non riuscivo mai a carpirgli qualche informazione privata e trascorrevo più tempo con lui che con i miei compagni di classe.

ROXANNE. L'Ultimo IncantoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora