Prologo

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Megan
(10 anni)

Correvo. Correvo cercando di dimenticare. Correvo per dimenticare. Scappavo. Alla fine era così bello pensare che un giorno avrei trovato me stessa. Ma forse è stato proprio questo "scappare" che ha provocato in me questo grande dolore. Mi allontanavo da tutto, da tutti, per poi rimanere sola, sola al mondo, isolata dalle situazioni anche belle.

"Megan! Ci sei?! Mi stai ascoltando?!".

Il mio sguardo ribelle, la mia treccia malfatta, le mie occhiaie così evidenti, fanno si che la mia attenzione sia ancora meno concentrata. Mi scuoto quasi di scatto, tanto da alzare il vestito ornato di preziose decorazioni. Ancora ricordo quando me lo regalarono: uomini sconosciuti, che entravano senza preavviso, e lasciarono dei regali sul tavolo, facendomi l'occhiolino, quasi compiaciuti della mia situazione. Sola al mondo, incompresa da tutto e da tutti.

"MEGAN! MI STAI ASCOLTANDO?".

Ripongo lo sguardo sulla mensola, alla ricerca della mia bambola, preziosa bambola. Quando mi fu regalata, inizialmente scossi violentemente la testa, tanto da farla sbattere contro lo spigolo del muro, così freddo ma allo stesso tempo rilassante. Una bambola quasi malconcia, con i capelli di un vellutato castano, ed occhi di vetro, che a prima vista pareva volessero eprimere solo rabbia e amarezza. La lanciai, inconsapevole del fatto che gli occhi di tutti i presenti nella sala erano fissi su di me, su quel piccolo corpicino esile, lacerato dai ricordi. Ma col tempo, quella bambola, rimasta nella mia piccola stanza, rintanata in un oscuro angolo, è divenuta parte di me. Ma ora non c'è. Alzo lo sguardo. I miei occhi sono terrorizzati al solo pensiero della sua scomparsa. Agito il corpo, le mani, la testa. Sembro pazza, quello che mi fanno credere dal giorno del mio arrivo. Improvvisamente sento sferrare uno schiaffo nella mia guancia, ormai lacerata dai colpi.

"TI HO DETTO DI ASCOLTARE, MEGAN!".

Deglutisco a fatica, il viso impregnato di lacrime.

"Mi scusi".

Abbasso lo sguardo, con aria innocente.

"Stavo cercando la mia bambola, ma qua non c'è".

Il suo sguardo si fa cupo, severo.

"Te l'abbiamo sequestrata per un pò".

Le mie lacrime minacciano di scendere, nuovamente.

"Cosa? Perché?".

La mia anima si ribella, e mi dimeno cercando di correre verso la mia stanza, coricarmi nel letto, e versare lacrime, come faccio da quando la mia vita è solo una grande sofferenza.

"Sei troppo legata a quella stupida bambola, vai a giocare con gli altri bambini".

Mi strattona, trascinandomi nella stanza principale, dove tutti sembrano felici, vivere la loro vita in pace. Ma so che in fondo, nessuno di loro è sereno, ogni anima ha le sue debolezze.

"NO, LASCIAMI!".

Cerco di liberarmi dalla sua presa, ma questo ha creato ancora più voracità nel suo sguardo. Un dolore lancinante percorre le guance, la bocca, la testa. Non ce la faccio più.

"COSA?!".

Ormai le sue botte hanno lasciato molti segni in tutte le parti del mio corpo, distrutto e stanco. I bambini, mi stanno scrutando terrorizzati dalla scena. Ma restano impassibili, a guardarmi soffrire, come delle macchine guidate a tempo, maneggiate e manipolate a scopo personale. Lancio segnali d'aiuto, mentre brividi di dolore lancinante percorrono il mio corpo.

"Sei in castigo, e non rivolgerti a me più in quel modo!". La sua voce sembra calma e decisa, tanto da trasmettere dei brividi. Altri brividi. Cerco di sdilacciarmi dalla sua presa ma la situazione è sempre peggio. Le sue mani sudate mi afferrano ancora di più sotto le ascelle, tanto da provocare un formicolio che percorre velocemente tutte le braccia, fino ad arrivare alle mani. Mi porta fin sopra le scale, trascinandomi letteralmente. Le mie gambe nude, strusciano sugli scalini di legno così tagliente, e per un attimo mi faccio tagliare dalle schegge, non pensando ad altro che a chiudere gli occhi. Ma quella strana sofferenza, fisica invece che psicologica, finisce presto. Mi trovo davanti ad una piccola porta, di metallo, fredda quasi quanto l'atmosfera di questo maledetto posto.

"FORZA, ENTRA".

Con fare deciso, apre la porta, scaraventandomici dentro. Mi chiude alle spalle, e con una smorfia quasi di disgusto, la vedo, da quel piccolo spiraglio dove riesce ad entrare un pò di luce, andarsene per la sua strada, per torturare altri bambini ribelli come me. Ma io sono ribelle? Sono una bambina? O sono solo un essere che non dovrebbe nemmeno appartenere a questo mondo? Perché a volte mi sento così. Mi giro, e mi accascio delicatamente contro la porta. Il buio prevale nello stanzino, così fottutamente silenzioso. Ma forse ho solo bisogno di questo. Stare da sola, rimuginare i ricordi per poi soffocarli in un grido straziante.

Michael (James)
(13 anni)

Odio tornare a casa da solo, passare il tempo a calciare sassi sotto i piedi, riprendere in mano le paure e i ricordi, camminare per poi correre, essere perseguitato. La scuola è distante da casa, forse anche troppo per evitare tutto, per evitare tutti. La sacca è pesante, e quasi mi lacera il braccio. Il mio viso è stanco. Vorrei appoggiarmi ad una pietra, calda sotto i raggi del sole, rovente al solo tocco. Ma non mi sento in vena di un riposo. La paura e il panico prendono il sopravvento. Così comincio a correre, con la speranza di accorciare il tragitto per arrivare finalmente da mia madre. Ma improvvisamente tutto cala sotto i miei occhi, e la paura mi si vela in volto: Jacob e il suo gruppetto di amici ormai mi è alle calcagna. Aumento velocemente il passo, chiudendo gli occhi, serrando i denti e stringendo i pugni, fino a quando le unghie non nuociono la pelle. Decido di non voltarmi e di proseguire la mia strada, nella speranza che smettano di seguirmi. Ma è un desiderio troppo grande per avverarsi.

"Dove vai, nerd di merda?".

Ironicamente gioca con quella frase, facendo risalire ancora di più la sofferenza che porto oramai da quando sono bambino. Il suo pugno sbatte sull'altra sua mano, provocando un frastuono che rimbomba sulla soia di quel piccolo viale. Sto per svoltare, abboccando la via che mi avrebbe portato finalmente a casa, quando sento uno strattono sulla maglietta, così forte da farmi mancare il respiro, già affannato a causa della corsa.

"Perché non ti sei fermato, piccolo moccioso?".

Le sue parole risuonano nella testa, e per poco mi sento mancare l'aria. Jacob ha circa 4 anni più di me, capelli castani scuro, due pozze scure al posto degli occhi e profonde cicatrici che gli solcano il viso. Non ho mai pensato con cosa se le sia procurate. Sinceramente non so nemmeno cosa si prova a picchiare un ragazzino più piccolo, ma so solo che se potesse uccidermi sarebbe meglio per entrambi, almeno metterei fine alle mie sofferenze. I suoi pugni mi atterrano, così sono costretto ad afflosciarmi a terra. I suoi amici restano impalati a guardare il meraviglioso spettacolo presentarsi davanti: un ragazzino pestato a sangue. Resto impassibile, come se la colpa di questo pestaggio fosse solo e soltanto mia. Nessuno mi nota, nessuno ci nota, forse anche perché i suoi "scagnozzi" stanno coprendo l'intera scena. Ormai i suoi calci mi stanno distruggendo lo stomaco, e ansimante dal dolore, mi accascio sul fianco, come per imprecare pietà. Ma sembra un diavolo, assatanato dal disprezzo. E lo fa ricadere sul mio corpo, che non reagisce, come se fosse sono un pezzo di plastica, come se fosse...morto.

(Spazio autrice): per chi ancora non lo ha capito Michael è il personaggio che interpreta James Maslow.

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