Prologo

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La notte stende un velo di oscurità su tutto il convento, la pioggia scroscia rumorosa sulla finestra della sagrestia e il rimbombo delle bacchettate contro le ossa sporgenti della mia schiena inonda la camera, una più forte dell'altra.
Con una mano mi reggo, con tutte le forze rimaste in corpo, sul tavolo scricchiolante, che ad ogni colpo si sposta di qualche millimetro.
Mentre con l'altra afferro il rosario che porto al collo e inizio a pregare. Prego che questa sia tutta una finzione, prego che in realtà mi trovi a correre in un campo di rose viola, e prego che il vento tolga tutte le sensazioni orribili che provo.
So che gridare non sarebbe servito a nulla ma il bruciore invadente che sento scorrere sotto la pelle, come un serpente affamato, mi porta ad urlare di dolore.
Lo sento dappertutto: sulle cosce, sulle braccia, sulla schiena.
È lì, proprio come la consapevolezza che mi avrebbe accompagnato per ancora tanto tempo.

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Apro lentamente gli occhi, mi ritrovo distesa sul letto con gli stessi vestiti di ieri, e noto che il cuscino, lievemente scolorito, è ancora umido del mio pianto.
Prima di alzarmi mi rigiro dall'altra parte, verso la scrivania sopra la quale è poggiato il libro che avevo appena iniziato a leggere.
I raggi del sole filtrano fulgidi oltre la finestra sopra il letto, e ricoprono la stanza di una luce naturale.
Mi strofino gli occhi con i dorsi delle mani mentre sbadiglio e appena mi metto seduta sento una forte fitta alla schiena.
Lascio sfuggire un gemito strozzato di dolore mentre abbasso la testa, sperando che tutto questo finisca; poi perlustro con le mani le braccia e le gambe in cerca di lividi o ferite visibili. Ormai ci ero abituata. Noto infatti degli ematomi abbastanza dolorosi, ma sopportabili, che si sono formati sulla spalla, ma appena faccio scivolare la mano dietro la schiena, sussulto. <ahi!>
Serro la mascella e dopo qualche secondo, con più delicatezza possibile poso di nuovo la mano sul punto in cui è concentrato il dolore; con molte probabilità è una lesione grave.
Devo metterci del ghiaccio, altrimenti peggiorerà.
Alzo lo sguardo per controllare l'orologio a pendolo di legno, appeso sulla parete, che segna le dieci di mattina; le suore avranno già fatto la preghiera del mattino da ore, ormai si staranno dedicando a qualche lavoretto manuale.
Sospiro e con fatica mi alzo dal letto cigolante. Con passi lenti raggiungo l'armadio e afferro le prime cose che mi capitano sotto mano: una gonna nera che arriva a malapena al ginocchio e una maglietta oversize semplice.
Cammino poi per dirigermi allo specchio; incomincio a fissare il modo in cui le cosce si sfiorano, o come le spalle sembrano troppo larghe e spigolose. Con le dita traccio il perimetro delle braccia e le faccio poi scivolare fino al polso, che stringo tra indice e pollice per controllare che non sia aumentato di diametro. Subito dopo tasto la clavicola per accertarmi che sia ancora sporgente e ben visibile; e infine passo la mano sullo stomaco, mai abbastanza piatto. Mai abbastanza perfetto.
I capelli, d'un castano scuro, ricadono scompigliati sulle spalle, arrivando fino al fondoschiena con le punte leggermente mosse; forse sono troppo lunghi, dovrei tagliarli prima o poi.
Alcune cicatrici ricoprono le spalle, altre arrivano fin dietro la schiena, lungo la colonna vertebrale, e altre ancora si trovano sulle cosce, sopra al ginocchio.
Presi un bel respiro e distolsi lo sguardo dal mio riflesso con un'espressione disgustata. Mi guardo intorno, in cerca del rosario che mi orna sempre il collo; per me è diventato un accessorio fisso, oltre al choker nero di velluto, che invece ho già addosso.
Ma dove l'ho messo.
Tiro un sospiro di sollievo appena lo vedo sullo scaffale sopra la scrivania, e lo indosso subito.
Mi infilo i soliti anfibi neri, ed esco dalla camera.

Attraversando la porta, sono inondata dalla luce accecante del sole, coperto da poche nuvole, che mi fa portare istintivamente la mano sul viso per coprire gli occhi.
Percorro la galleria aperta, che si affaccia sul chiostro, contraddistinta da colonne bianche robuste con capitelli fogliati, che danno un aspetto classico a tutto il convento; il convento è stato costruito nel periodo del medioevo, per questo l'architettura è molto antica e non è stata mai cambiata a parte qualche ristrutturazione.
Si può sentire l'acqua, che scorre limpida, della fontanella proprio al centro del chiostro e poi circondata da un prato fiorito, ancora bagnato della pioggia di ieri notte. Riesco anche a sentire l'effluvio della terra umida e dei fiori pregni d'acqua.
Passandoci vicino, mi cattura immediatamente l'odore dei crisantemi bianchi in mezzo ai cespugli: emanano un profumo intenso e gradevole, come se neutralizzassero tutti i cattivi odori intorno a loro; mentre da lontano si percepisce il sapore floreale delle rose viola, i miei fiori preferiti, che circondano la fontanella.
È iniziata la stagione che preferisco di più: l'autunno. Finalmente è passato il caldo torrenziale dell'estate e come esso rendeva la pelle sudata e appiccicosa.
Inoltre tra poco compierò diciannove anni. Diciannove anni e non ho ancora nessun posto nel mondo.
Per questo ho deciso che prima o poi uscirò da qui, me ne andrò. Per sempre.
Mi farò una vita da qualche parte in campagna sopra una collina. Lì la vita è così tranquilla.
Torno alla realtà e a pensare al ghiaccio, per curare la ferita alla schiena, quando mi trovo davanti al portone della mensa, lo apro e mi dirigo senza pensarci due volte alla cucina, oltrepassando il bancone del cibo con ancora qualche scarto della colazione.
Aprendo il frigo vengo travolta dall'aria fredda che emana, poi mi piego e afferro una bustina piena di cubetti di ghiaccio.
Prima di andarmene sento il sapore dolce delle crostatine alla frutta e lo stomaco mi brontola, quindi chiudo subito la porta del frigo e cerco di pensare a qualsiasi altra cosa.
Zitta Eden! Non devi neanche pensarci.
Mando giù un groppo di saliva, insieme a tutti i pensieri maligni che mi infestano la testa, e torno al dormitorio.
Non lascerò che quei pensieri prendano il sopravvento.
Non so per quanto ancora avrei mentito a me stessa.
So che questo è sbagliato, ma provare dolore è il mio unico modo per sentire qualcosa. Per sentirmi viva. Non mi è stato insegnato nient'altro.
E poi so controllarmi.
Io ho il totale controllo di me stessa.

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