Qualcosa è rimasto

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Gli occhi chiari del ragazzino ferito mortalmente si spensero proprio mentre il Capitano Conraad Vinkenoog gli reggeva la testa.

Il poveretto aveva tre squarci orizzontali sul suo petto, dai quali sgorgavano fiotti di sangue che portavano via un po' della sua vita ad ogni battito del suo cuore, e il Capitano non aveva alcun dubbio su ciò che era successo al giovane morto tra le sue braccia.

In esplorazione in un bunker sotterraneo abbandonato dopo l'ultima guerra del genere umano — la grande guerra contro un nemico apparentemente invincibile che, dopo cent'anni di lotte e stermini, aveva abbandonato il pianeta nella convinzione di aver massacrato tutti — insieme a quattro dei suoi compagni, era tornato da solo con quelle terribili lacerazioni e, sconvolto dalla perdita di sangue, si era accasciato proprio di fronte all'ingresso della base, dov'era stato portato d'urgenza dal Capitano.

Quando questi aveva visto il ragazzo ed aveva esaminato le sue ferite e le bruciature a forma di goccia su braccia, viso e collo, Vinkenoog non aveva avuto alcun dubbio e il brivido di un orrore che credeva di essersi lasciato alle spalle risalì lungo la sua schiena, strisciando come un serpente malevolo.

Accanto a lui il Comandante Quinto De Cesari, capo di uno degli ultimi avamposti dei sessantamila e poco più umani che abitavano l'intero pianeta, aveva subito capito la situazione: era anch'egli un combattente esperto e sapeva troppo bene cosa doveva essere accaduto in quel bunker.

Non ci fu un attimo d'indecisione nel cuore di Vinkenoog: lasciò andare il povero ragazzo, guardò De Cesari negli occhi e annuì.

«Sappiamo cosa significa» mormorò. «Comandante, chiedo il permesso di esplorare quel bunker».

Un attimo di esitazione, poi De Cesari, ingrigito dall'età ma ancora autoritario com'era stato un tempo, diede il proprio assenso.

«Permesso accordato, Capitano» rispose. «Vengo anche io».

«Ma signore...».

«Niente "ma signore", Capitano» tagliò corto De Cesari. «Se è quello che pensiamo, e lo è certamente, io voglio essere lì di fronte a combattere insieme ai miei uomini. Kanoussi, chiama il Maestro di Battaglia Plisskin e i soldati Montoya, Perez, Almeida e Serrano, li voglio pronti sul Vespa entro un'ora».

Kanoussi, un francese dall'aria concentrata, annuì e passò l'ordine attraverso il microfono che aveva di fronte.

De Cesari e Vinkenoog si guardarono senza dire una parola, limitandosi ad annuire e deglutire: quei graffi avevano un solo significato, che risvegliava ricordi da non augurare al proprio peggior nemico.

L'ultima guerra era finita ma qualcosa, apparentemente, era rimasto.

Il Vespa, un parallelepipedo di metallo volante dotato di motori a reazione orientabili, atterrò di fronte all'ingresso del bunker abbandonato.

I mitraglieri scandagliarono la zona, senza trovare nulla, e i sette soldati poterono sbarcare in sicurezza: con De Cesari di fronte, Vinkenoog alla sua destra al comando di Montoya e Almeida e Plisskin a sinistra con alle spalle Perez e Serrano, la piccola squadra d'incursione fu pronta all'ingresso nel bunker.

Tutti loro, tranne il Comandante, imbracciavano fucili d'assalto a tre canne Knocker, gli stessi di anni prima, gli stessi della guerra, tutti loro avevano con sé rilevatori oculari con microfono incorporato e tutti loro possedevano potenziamenti cibernetici e nanotecnologici che permettevano loro di trascendere riflessi, forza e resistenza degli umani nati e cresciuti comunemente — ormai inesistenti, visto che tutti venivano sottoposti ai trattamenti potenzianti da neonati — ma tutti loro provavano anche un terrore ben conosciuto, il terrore della guerra più orripilante mai rimasta nella memoria dell'uomo.

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