𝐏𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐨

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Lo studio del Dott

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Lo studio del Dott.re Larsen era un'illusione a occhi aperti.
Quella stanza, con le pareti in rovere scuro, ti avvolgeva in un abbraccio che voleva sapere di premura e tu, mosso da un sentimento di totale smarrimento perché annegato nella più profonda verità dei tuoi sentimenti, ti lasciavi cullare. Rimanevi seduto su quella poltrona perfettamente tenuta ma datata e speravi che in quella stanza arrivassero le risposte a tutte le tue domande, e che forse quella notte saresti riuscito a dormire un po' di più. O solo un po'.

Mentre guardavo oltre la finestra, mi domandavo quale dei miei ricordi, quella sera, sarebbe venuto a bussare alle porte della mia mente per poi impossessarsi del mio sonno.
E le mie gambe si fecero più deboli.

Il Dott.re Larsen chiamava questi fenomeni: pensieri intrusivi, in grado di generare sensazioni negative. Io li chiamavo superficialmente: incubi, ed erano immagini che si avvinghiavano alle radici della mia psiche e la riducevano a sudore e tachicardia. Il tempo di attesa si stava prolungando e la mia schiena, seppure comodamente adagiata a una chaise longue di pelle marrone, diventava ogni minuto più rigida al pensiero di ciò che avrei dovuto affrontare.

«Signor Ainsworth, è un piacere rivederla. È già stata informata del perché io abbia richiesto la sua presenza?»
Antony Larsen entrò con il suo solito sigaro in bocca, i capelli brizzolati che lo rendevano abbastanza maturo per sapere quello che stava facendo e il sorriso divertito di chi ero stato mandato al diavolo da un uomo che sapeva avrebbe rivisto: io.

La mia testa si fece ovattata, pensai che l'aria avrebbe schiarito il vortice di pensieri che mi stava scombussolando la mente ma sapevo che non mi sarebbe stato consentito di alzami per aprire la finestra.

«Sono sicuro che sarà molto più felice di informarmi lei.» dissi.

Mi misi a sedere nella conca di quella vecchia chaise lounge che occupava il centro della stanza. Non rimanevo mai sdraiato, il senso di oppressione saltava sul mio stomaco come a volermi mandare ancora più in profondità, e la mia consapevolezza della mia totale incapacità di saper tornare a galla da solo, mi obbligava a mettermi seduto con le spalle larghe e il petto all'infuori, quasi a sfidare inconsciamente ogni singola paura.

Larsen si sedette davanti a me, in mano aveva una caramella alla menta che avrebbe mangiato non appena il sigaro avesse smesso di fumare, nell'altra teneva un taccuino che usava con il solo scopo di farmi arrabbiare. Sedermi davanti a lui era forse il passo più grande compiuto nelle ultime settimane e l'idea che le prove della mia docilità potessero essere messe nero su bianco, non mi tranquillizzava.

«Nelle scorse due settimane mi è giunta voce che le sue ultime missioni fossero insufficienti rispetto alle sue capacità. Ha avuto cali di pressione, rischiato la perdita di sensi mentre effettuava un'accelerazione in alta quota. E infine, un attacco di panico mentre sorvolava l'oceano che ha richiesto l'immediato rientro alla base.» Mi rispose risoluto.

Aveva segnato ogni mio fallimento delle ultime due settimane. Quegli appunti rappresentavano i pensieri che mi attanagliavano la notte. Non ne fui sorpreso e il mio orgoglio, fin troppo sanguinante, non avrebbe mai lasciato che la mia agitazione si manifestasse. Il volto di Larsen non avrebbe avuto la soddisfazione di sorridermi per ricordami quanto avesse avuto ragione nell'arco dei mesi precedenti: non avrei dovuto interrompere i nostri colloqui.

𝐁𝐥𝐚𝐜𝐤𝐛𝐢𝐫𝐝Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora