CAP 0

4 1 0
                                    

Ero sicura al cento per cento di stare dormendo. Ero sicura al cento per cento di stare sognando. Era notte, ma dal punto in cui mi trovavo non riuscivo a vedere nulla a parte una colonna di fumo nera come la pece.

Che cosa... Assottigliai lo sguardo come meglio potevo alla ricerca di qualche indizio su dove mi trovavo.

Sussultai nel vedere una marea di persone correre verso di me come se fossero inseguite dalle fiamme dell'inferno.

Dannazione
.

Provai a fare lo stesso, a scappare, considerando che rischiavo di essere travolta dall'onda umana, ma con scarsi risultati.

I piedi erano ben piantati nella sabbia dorata e non riuscivo a liberarli in alcun modo possibile.

Imprecai.

Chiusi gli occhi preparandomi al peggio, ma sorprendentemente non accadde proprio niente.

Ritornai a guardarmi attorno, però subito notai che mi trovavo in un punto diverso rispetto a prima. Non c'era fumo, non c'erano migliaia di persone spaventate che correvano verso la salvezza.

C'era la luna. C'erano le stelle. C'erano le fiamme che bruciavano ogni cosa. C'erano le grida e una ragazza.

I capelli castani ricadevano fino a metà schiena, il corpo tremava seppur coperto da una tunica bianca con vari gioielli in oro mentre le dita affusolate stringevano qualcosa di prezioso.

«Lui non c'è più» bisbigliò.

Aggrottai la fronte, mi scostai una ciocca di capelli ribelle e mi piegai sulle ginocchia doloranti.

Allungai una mano per toccarle la spalla, ma rimasi paralizzata alla vista del suo viso: era identico al mio.

Spalancai la bocca carnosa, provai a dire qualcosa ma le corde vocali parevano paralizzate.

«Astrid?».

Improvvisamente tutto quello che mi circondava iniziò a frantumarsi fino a diventare polvere.
Delle persone, delle grida, della puzza di fumo non rimase nulla, a parte e una massa informe.

Cautamente alzai le palpebre pesantissime e mi guardai attorno seppur ancora assonnata. La primissima cosa che vidi fu un soffitto bianco sconosciuto colmo di luci a led abbaglianti.

Mugugnai infastidita, distolsi lo sguardo e mi concentrai sulla persona che mi aveva chiamato: la mia migliore amica.

«Siamo arrivati?» borbottai.
«Sì, stiamo atterrando».

Deglutii un fiotto di saliva bollente, sospirai rumorosamente e chiusi in un angolo del mio cervello quegli stranissimi incubi.

Mi massaggiai le tempie e battei le palpebre alla vista delle piccole cuffie di colore bianco latte. Erano attorcigliate attorno al mio polso ed erano collegate a quello che era il mio telefono personale.

Scossi la testa sconsolata, liberai il mio corpo da quei sottili fili e sbloccai l'oggettino tecnologico per controllare l'orario: erano le 18:30.

Annuii tra me e me alla vista di quei numeri piuttosto preoccupanti e gettai tutto nello zainetto. Poi, mi feci forza sulle ginocchia addormentate a causa della posizione e... mi alzai in piedi.

«Preso tutto?» domandai.
«Sì» disse.

Sorrisi soddisfatta a colei che si trovava al mio fianco e iniziai a dirigermi verso l'uscita che non distava molto.

Senza guardarmi indietro, varcai la soglia lasciata aperta e scesi le scale ricoperte da un tappeto verdognolo.

Mi bloccai sull'ultimo gradino quando uno strano brivido mi percorse completamente la spina dorsale provocandomi una miriade di sensazioni contrastanti come attesa, curiosità ma anche ansia.

Niente paura!

Mi mordicchiai il labbro inferiore e passo dopo passo raggiunsi le porte automatiche dell'aeroporto. Appena le superai fui travolta da una serie di flash appartenenti a diverse macchine fotografiche.

«Dannazione» borbottai.

Strizzai le palpebre per allontanare tutti i piccoli puntini luminosi e mi voltai verso la mia sinistra.

Emy si stava coprendo gli occhi con una mano e cercava di non rispondere alle domande che le venivano fatte.

Giornalisti!

Presi un respiro profondo, rinchiusi la mia ansia in un angolo del mio cuore e cercai di non mostrarmi nervosa. Per un momento, un solo, gli insegnamenti di mio padre presero possesso di me e del mio corpo.

«Buonasera» salutai.

«Bentornata a Domino, Miss Suzuki. E' tornata per lavorare?» domandò una donna dagli occhi verdi, capelli rossi e grandi occhiali a cerchio «Collaborerà con la Kaiba Corporation?».

Schioccai la lingua rumorosamente al suono di quella domanda fin troppo precisa per i miei gusti.

Io non sapevo proprio cosa pensare oppure cosa rispondere considerato che qualcuno all'interno della Kaiba Corporation avrebbe segnalato l'intervista.

«E' ancora da decidere» risposi.

Sospirai rumorosamente tra me e me e mi preparai all'ennesima domanda a cui non avrei risposto.

Ma, quando mi girai verso destra, non mi ritrovai a fissare un guastafeste ma un volto a me familiare: un uomo di circa trentacinque anni si infilò tra me e gli altri reporter arrivati negli ultimi minuti.

Circondò il mio corpo e quello della mia amica con le sue braccia ricoperte da un abito scuro e su misura.

«Ne usciremo vive?» borbottò Emy.
«Abbiate fiducia in me» affermò Paul.

Ridacchiai divertita da quelle parole così gentili e mi armai di tutto il coraggio che possedevo. Presi un respiro profondo e assottigliai lo sguardo alla ricerca di una piccola e valida via d'uscita.

Ne trovai una.

Era dietro ad una colonna in marmo ed era tenuta aperta da un bastone per pulire il pavimento. Attenta a non farmi vedere indicai quello che avevo scoperto alle due persone che erano con me.

«Quando vuoi» sussurrò Emy.

Annuii, mi portai una mano sul cuore e cominciai a farmi spazio nella folla che non voleva lasciarci passare.

Appena fui vicino alla porta di colore verde, allungai una mano e strinsi il bastone che mi era di impiccio.

Deglutii un fiotto di saliva bollente, varcai la soglia seguita dalle persone che mi accompagnavano e chiusi l'ingresso con l'oggetto in legno.

Dall'altra parte udii diversi rumori come scatti fotografici ma anche diverse imprecazioni contro di noi.

«Andiamo?» chiesi.

Tutti assieme percorremmo l'ala sotterranea dell'aeroporto che ci portò direttamente nel parcheggio.

Proprio vicino l'uscita principale c'era una macchina ad attenderci: grande, alta, nera e lucida. Paul aprì il veicolo con il telecomando, spalancò gli sportelli e ci fece segno di salire a bordo.

«Grazie» dissi.
«Grazie» ripeté Emy.

Paul sorrise intenerito, si assicurò che fosse tutto a posto e chiuse gli sportelli con una spinta.

Dopo di che si mise alla guida del mezzo che iniziò a guidare per le strade della bella città.

Sospirai sollevata all'idea di non dover affrontare più nessuno almeno per quella mezza giornata.

Abbassai il finestrino così da far passare un po' d'aria calda, ma proprio alla prima svolta dell'auto notai un mezzo di trasporto simile, ma non identico al mio.

Al suo interno, c'era qualcuno a me familiare: un ragazzo dai capelli castani e gli occhi azzurri.

«Astrid, tutto bene?» chiese Emy.
«Sì» risposi «Tutto bene».

Golden; YugiohDove le storie prendono vita. Scoprilo ora