Tormenti in libreria

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"Che fai? Non starai mica guardando un'altra volta le sue foto?"
"No", disse Arianna, nascondendo il telefono sotto il tavolino del bar.
Bea si protese con uno scatto degno di una lince, per afferrarle il polso. Un bicchiere di succo di pompelmo traballò, un tovagliolino sporco di zucchero prese il volo, ma la mano e il telefono rimasero ben fuori dalla portata del gesto rapace.
"Stavi guardando le sue foto, non puoi negarlo. Quando lo guardi, i tuoi occhi si trasformano: le pupille si dilatano, le sclere luccicano, sembri un'ebete".
Arianna sorrise. Sapeva che l'amica stava per metà scherzando, e per l'altra metà era sinceramente preoccupata per gli effetti più o meno nefasti di quell'ormai cronica infatuazione.
"Va bene, lo stavo guardando", confessò. Ingrandì con due dita il centro della foto e mostrò lo schermo a Bea. "Non è meraviglioso? Guarda il colore ineguagliabile dei suoi occhi, la perfezione del suo etereo sorriso".
Bea sospirò, rassegnandosi a esaminare l'ennesimo ritratto del soggetto in questione. Era un ragazzo non brutto, non bello, un po' all'antica. Il colore degli occhi era in realtà piuttosto ordinario. Quanto al sorriso, più che etereo era immaginario. Quel tizio non rideva mai. In tutte le foto, sembrava a disagio, come se si aspettasse che il fotografo potesse aggredirlo da un momento all'altro. Nelle poche fugaci interviste che qualche giornalista tenace era riuscito a estorcergli, dava l'impressione che la celebrità si fosse abbattuta su di lui come un'immane sciagura, alla quale faticava a rassegnarsi.
"Non potevi prenderti una cotta per un attore o uno sportivo, come fanno tutte?"
"Io non sono come tutte", rispose Arianna, con una punta di orgoglio, accompagnata dall'autoironica consapevolezza di stare affermando una verità indiscutibile. Non era mai stata come le altre. Troppo timida, troppo studiosa, evitava come la peste la confusione, le feste, le compagnie sguaiate. Non faceva che passeggiare per prati e boschi e leggere. Leggeva di tutto: classici, novità, saggi, romanzi, manuali, prodotti editoriali di dubbia e inquietante natura.
Così aveva conosciuto lui, lo scrittore. Aveva letto tutti i suoi libri. Tutti e due. Aspettava con trepidazione l'uscita del terzo, che era già stata annunciata, poi rimandata, in innumerevoli occasioni.
Gli aveva parlato una volta sola, a un firmacopie dell'ultima opera. Gli aveva detto una sola parola, e per poco non era svenuta. Aveva aspettato in fondo alla fila, rigirando la sua copia di Tormenti nel sottobosco tra le dita fredde e umide di sudore. Quando era arrivato il suo turno, lui l'aveva guardata di sfuggita e le aveva chiesto il nome per la dedica. Lei aveva risposto sottovoce. Troppo sottovoce. Lui aveva capito "Adriana". E così, sul comodino, lei ora conservava come una reliquia una copia di Tormenti nel sottobosco dedicata ad Adriana, firmata Edmondo Carloni.

Edmondo Carloni non amava la mondanità, non amava la folla, non amava le chiacchiere, non amava la gente. O forse esisteva un piccolo sottoinsieme di gente che non gli dispiaceva del tutto. Ma gli faceva paura. Si sentiva costantemente inadeguato. Pensava di essere brutto, o forse non troppo brutto, ma strano. Sapeva di essere goffo e di non riuscire mai a dire la cosa giusta al momento giusto. Per decidere che cosa dire, doveva pensarci. Poi gli usciva qualcosa di sensato, a volte persino intelligente. Se ci pensava un altro po', mentre camminava da solo tra gli alberi, poteva addirittura partorire qualcosa di arguto. E così, passeggiando nei boschi, aveva scritto la sua prima opera, Tormenti tra le querce. Aveva mandato il manoscritto a una manciata di editori, un po' per gioco e un po' per l'inconfessabile desiderio di vedere apprezzate da qualcun altro al mondo le sue elucubrazioni. Non si aspettava che gli editori rispondessero. Infatti non lo fecero.

Passarono tre anni, durante i quali scrisse Tormenti nel sottobosco. Poi un editore rispose. Non si può dire che fosse entusiasta di Tormenti tra le querce, ma lo riteneva in qualche modo innovativo, anche se non era sicuro che lo fosse in modo gradevole o utile. Pensava che forse potesse valere la pena di concedergli una possibilità.
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