Prologo

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La musica cominciava a essere troppo forte per i suoi gusti. Le persone erano già tutte altamente ubriache e sembravano muoversi per inerzia, accompagnate dalle vibrazioni della musica e dalle disorientanti luci stroboscopiche, che alternavano il colore viola ad un accecante bianco. Alana cominciava a sentirsi stretta in questo ambiente, come se ad ogni suono di basso i muri le si chiudessero addosso. Kate, Jake e Audre ballavano come se la musica fosse diventata parte di loro, ma lei non riusciva più a divertirsi. Era sempre così: le prime ore riusciva ad abbandonarsi completamente, a godersi la serata, poi iniziava a non sentirsi più a suo agio e finiva per forzare sorrisi, a fare finta che tutto andasse bene, ma in realtà non vedeva l'ora di tornare a casa. La maggior parte delle volte la sua serata finiva prima di quella dei suoi amici, che rimanevano al locale fino alle cinque di mattina, ma quel giorno si era offerta di guidare, quindi doveva aspettare che i suoi amici decidessero di andarsene. Non avrebbe mai osato essere quella che rovinava la festa.

«Tutto bene Al?» le domandò Kate. Evidentemente non era così brava a nascondere i suoi sentimenti come pensava.

«Sì, sì. Ho solo mal di testa» mentì, cercando di fare finta di niente. Era solo un mal di testa, non le avrebbe certo impedito di passare una serata indimenticabile.

La sua amica la guardò un attimo, soppesandola. «Possiamo andare se vuoi.»

«No! Restiamo pure, non è un problema. Davvero» si affrettò a ribattere. Ma la musica era sempre più forte e le batteva nelle vene facendole pulsare il sangue a una velocità preoccupante. Dio! Non la sopportava più. «Vado a prendere un po' d'aria, arrivo subito.»

Uscì dalla sala e si diresse verso il piccolo cortile della discoteca. Il freddo era pungente, ma non le dava fastidio, anzi, sembrava risvegliarla. Sulle panchine di pietra c'era gente che dormiva, gente che si baciava e qualcuno che fissava il vuoto. Frugò nella sua borsetta bianca e tirò fuori il pacchetto di sigarette, se ne accese una e inspirò il fumo, facendolo entrare completamente nei suoi polmoni. Sapeva che era sbagliato, ma in qualche modo era l'unica cosa che riusciva a riportarla alla realtà in situazioni come quella. Un tiro dopo l'altro, forse troppo velocemente, si sentiva di nuovo coi piedi per terra, quasi come se fosse ritornata indietro nel tempo, quando era appena entrata nel locale e auspicava di divertirsi e perdere la cognizione del tempo.  Finita la prima accese la seconda: voleva restare lì fuori per più tempo possibile. Guardò l'ora sul suo telefono: 03:44. Ancora un'ora e i suoi amici avrebbero probabilmente deciso di tornare a casa. Ce la poteva fare.

Kate sbucò dall'entrata con un'aria preoccupata. «Andiamo a casa» disse solo.

Alana stava per dirle che potevano restare, che il mal di testa le stava passando, ma non era per lei che avevano preso questa decisione. «Audre ha appena visto Cole baciare un'altra. Voleva lanciargli il cocktail addosso, poi si è messa a piangere e... penso sia meglio tornare a casa.»

Audre avrebbe dovuto lasciare quel ragazzo da mesi, era chiaro che fosse una brutta persona, che la stesse tradendo da tempo, ma tutte le volte che provava a dirglielo la sua risposta era sempre: «Sì, ma tu non capisci», oppure «Quando avrai un ragazzo capirai». Ad Alana non serviva un ragazzo per capire certe cose, probabilmente le capiva meglio proprio perché un fidanzato non ce l'aveva. Dopo un po' si era rassegnata e questo era stato il risultato.

Buttò a terra la sigaretta appena iniziata e si diresse verso il guardaroba, dove i suoi amici la stavano già aspettando. «Mi dispiace» disse a Audre. E lo intendeva davvero, ma avrebbe anche voluto dirle "Te l'avevo detto, avresti dovuto ascoltarmi". L'amica aveva lo sguardo basso, probabilmente stava ancora piangendo. Raggiunsero la macchina di Alana, che uno ad uno li accompagnò a casa. Kate era rimasta a dormire dall'amica, perché non se la sentiva di lasciarla sola.

Alana era finalmente circondata dal silenzio. Lo amava e lo odiava allo stesso tempo, soprattutto in serate come quella. Non sapeva perché non riusciva a divertirsi come tutti gli altri: era successo da un giorno all'altro. Aveva smesso di provare piacere nell'usciere, divertirsi era diventata un'arma a doppio taglio. Non che volesse stare sempre a casa: se i quattro amici si trovavano un un bar lei ci andava volentieri, perché in quel caso si sentiva meno esclusa. Ecco, era quello il problema. Non riusciva a fare a meno di sentirsi esclusa. Forse era tutto nella sua testa, forse era vero. Ogni tanto i suoi amici sembravano avere più intesa fra loro che con lei e questo la faceva pensare. Pensava talmente tanto che poi quasi le mancava il respiro e finiva per doversi allontanare. Le sembrava che tutti la stessero guardando, che tutti stessero notando che lei non apparteneva a quel gruppo di amici, che era la ruota di scorta, la seconda scelta. Era una sensazione terribile. Alla fine di queste serate sentiva un vuoto dentro di sé, si sentiva priva di colore, un'ombra scura in una stanza buia.

Le nuvole quella sera coprivano la luna, rendendo la notte ancora più tenebrosa. Aveva appena notato che il cielo sereno che li aveva accompagnati all'inizio di quella uscita di ta svanito, sostituito da nubi quasi sinistre. Senza nemmeno avere il tempo di pensarlo la pioggia cadde giù rapida, sempre più violentemente. Sotto quell'acquazzone era quasi impossibile vedere la strada. Avrebbe girato l'angolo, passato l'incrocio e si sarebbe riparata sotto la tettoia del suo distributore di fiducia, almeno finché il temporale non si fosse placato un po'. Mise la freccia, il semaforo era verde e passò l'incrocio. Non si accorse del camion che aveva perso il controllo del suo veicolo, quando lo vide era troppo tardi. L'impatto fu immediato e devastante. Poi il buio.

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