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Il calore delle sue mani mi travolgeva, inibendo i miei sensi e facendomi cadere in un anomalo stato di torpore fisico. La mia testa premeva contro il palmo delle sue mani senza che io potessi impedirglielo, ansiosa di ricevere più attenzioni, incurante dei vani comandi che cercavo di trasmetterle per reprimere il mio istinto.

Sapevo bene che Clarisse era solo mia e che io ero solo suo, ma il mio corpo era costantemente insoddisfatto del nostro rapporto ed aveva iniziato ad esigere ogni giorno qualcosa in più, che si fosse trattato di un'occhiata o di una delicata e quasi impercettibile carezza.

Aveva delle bellissime mani, la mia Clarisse. Le sue dita erano affusolate ed eleganti, i suoi polpastrelli erano soffici e sapevano sfiorare la punta del mio naso con una sensibilità unica, come non avevo mai lontanamente immaginato esistesse prima d'allora al mondo. Avrei voluto che quelle mani mi appartenessero, per evitare che altri all'infuori di me assaporassero il senso d'ebbrezza che la punta delle sua dita sapeva infondere al minimo tocco.

Clarisse era solo mia. Le sue mani erano solo per me. Le sue carezze mi appartenevano. L'avrei difesa a costo della vita.

Quando eravamo seduti sul divano, lei era solita solleticarmi inizialmente la gola con quelle dita divine, per poi avvicinarsi a me e sussurrarmi parole dolci. La sua voce non era quella di una qualsiasi diciassettenne come lei, ma aveva un che di paradisiaco, etereo ed ultraterreno, arrivando a perforare i miei timpani più violentemente delle campane della chiesa vicina. Clarisse aveva un timbro soave e melodico, quasi d'arpa, silenzioso e, al tempo stesso, così affascinante da rompere il silenzio e catturare su di sé tutte le attenzioni. Ma non parlava con lo stesso tono a chiunque. L'avevo sentita gridare, usare una voce forte e ben più acuta, incrinata per la rabbia, oppure ancora singhiozzante per le lacrime. Nonostante tutto, per quanto mi sforzassi di rasserenarla, riuscendo, il più delle volte, a farla tornare in sé, non detestavo le alterazioni della sua voce, ma, anzi, amavo anche quelle. Più di una volta, infatti, giunsi a pensare che avrei desiderato ardentemente conoscere ogni minima variazione del suo timbro vocale, acuta o grave, dolcissima ed amorevole o asperrima e carica di odio: l'avrei amata ugualmente ed ancora di più. Ascoltandola, alzavo il muso nella sua direzione, cercando vanamente di trovarmi faccia a faccia con lei, ma riuscendoci solo grazie alla guida delle sue mani.

Dopo avermi sconvolto interamente con quelle parole, arrivava sempre, inesorabilmente, la mia fine.

Clarisse emetteva un gemito allegro a fine discorsi e, incoscientemente, posava le sue labbra sul mio naso, mentre faceva scorrere la sua mano lungo il mio collo e per tutta la lunghezza della spina dorsale. Le sue labbra, teneri e vergini petali di rosa, erano perennemente impregnati della dolcezza nauseante della cannella, per via del suo burro di cacao al medesimo aroma e per il suo insano amore per i dolci alla cannella. Circa ogni giorno, infatti, mi concedeva il privilegio di assaggiare parte dei suoi dolci preferiti, dandomi la possibilità di conoscere il mondo attraverso i suoi occhi e di trasmetterle il mio pensiero in merito a quel sapore zuccherino mediante semplici gesti d'intesa che persino io sarei riuscito ad eseguire. Avrei voluto farle percepire ugualmente la bellezza del mio mondo grazie alla sua esistenza così come lei trasmetteva a me la sua venerazione per la cannella, ma ciò non sarebbe mai stato possibile: quei baci, probabilmente irrilevanti a suo avviso, risultavano essere un connubio di sensazioni unico ed intossicante per i miei sensi.

Tatto, udito ed olfatto si attivavano per gustare quegli attimi interminabili di ebbrezza ed imprimere la figura di Clarisse nella mia mente. La figura che non avrei mai visto, attraverso i miei occhi opachi, impossibilitati da madre natura alla vista delle creature divine da lei stessa poste su questo pianeta.

Chissà quant'era bella la mia Clarisse? Spesso i suoi capelli avevano coperto il mio muso, quando ci sdraiavamo insieme sul divano e lei si gettava su di me, ridacchiando ed accarezzandomi subito dopo, lasciandomi percepire dei lunghi ricci setosi. Altre volte ero riuscito a comprendere altri dettagli sul suo fisico, ma non era facile riprodurre nella propria mente qualcosa che non avrei mai potuto vedere. Non avevo la più pallida idea di cosa fosse la vista e non l'avrei mai potuto capire. Aveva detto di avere occhi verdi e capelli castani chiari, tendenti al biondo miele. Ma cos'era il verde? Quando suo fratello più piccolo, William, aveva imparato i colori, io ero stato al suo fianco ed avevo ascoltato le spiegazioni di Sophie, la matrigna della mia Clarisse.

"Il verde è come l'erba", aveva detto. Richiamavo alla mia mente la sensazione del prato sotto il mio peso ogni volta che pensavo agli occhi di Clarisse e mi lasciavo travolgere dalla freschezza del suo ipotetico sguardo, come l'erba impregnata di rugiada al mattino.

"Il marrone è come il tronco degli alberi", aveva spiegato poi, invece. Non riuscivo a ricollegare bene quest'ultimo dettaglio e tutto ciò mi turbava non poco.

Volevo conoscere Clarisse. Volevo essere il più vicino a lei. Volevo poter essere la sua roccia.

Il mio desiderio di possederla cresceva di giorno in giorno e con esso anche la mia salute peggiorava: mi stavo ammalando per la lussuria che mi agitava. La mia coda, spelacchiata con pochi ciuffi "neri come la fuligine", in cui mi ero più volte rotolato, si agitava freneticamente all'improvviso alla sua vista, mentre in sua assenza non rispondeva e rimaneva immobile, trasmettendo il suo irrigidimento al mio intero corpo, pietrificandomi.

Ero vecchio, avevano detto. Era giunto il momento di sopprimermi. Dopotutto, una volta soppresso, non avrei più dovuto patire queste pene infernali che mi dilaniavano l'animo senza che potessi neppure ululare il mio dolore al mondo intero.

Sarebbe finito tutto, me ne sarei dovuto convincere. Clarisse sarebbe scomparsa. Non l'avrei mai più rivista. Ero arrivato al termine della mia corsa, ma non rimpiangevo un singolo istante della mia vita, neppure le percosse infertemi dai miei precedenti padroni. Tutto sommato, li ringraziavo, perché grazie a loro l'avevo potuta incontrare. Mi ero rassegnato all'idea ed avevo atteso pazientemente la mia ora, trascorrendo i pomeriggi tra il salone ed il giardino. Poi, un giorno, Clarisse aveva fatto irruzione nella stanza, segnalando la sua presenza sbattendo rumorosamente la porta e gridando "No!". Mi aveva messo il guinzaglio al collo e mi aveva strattonato dietro di lei, iniziando a correre affannosamente, scossa dall'ira.

Quasi sicuramente, l'avevano appena informata della mia fine, il che significava che sarei morto il giorno stesso. Il suono del suo respiro riempiva l'aria che mi circondava impedendomi di percepire qualsiasi altro suono. Quelli erano i miei ultimi attimi.

Clarisse correva senza sosta.

Poi, un semaforo mancato.

Non l'aveva visto. Anche lei, per una volta, non aveva visto.

L'odore ferruginoso impregnò l'aria e perforò le mie narici, raggiungendo presto il mio cervello. Era un odore familiare, legato a ricordi negativi: quando Clarisse si era fatta male al ginocchio, quando si era tagliata il dito con l'ago, quando aveva preso una botta sul naso ed una strana goccia era caduta per terra, seguita da altre dello stesso odore poco dopo.

Mi avvicinai al luogo dove percepivo il suo calore corporeo. Calpestai uno strano liquido, denso, dal sapore ferruginoso. Non volli riconoscerlo. Mi avvicinai ancora di più a lei, scosso da un fremito interiore. La tastai con il naso. Il calore che mi aveva tanto inebriato stava svanendo e cedendo strada alla fredda temperatura dell'asfalto.

Davanti a me, non c'era più un mondo vivido di sensazioni.

Ero diventato cieco una seconda volta. Il buio mi circondava.

Caddi a terra, in preda alle convulsioni.

Qualche spasimo. Un ultimo respiro affannato.

Il mio corpo ora assomigliava a quello di Clarisse, proprio come il suo, negli ultimi istanti, era stato simile al mio.

Forse, non eravamo mai stati così diversi come credevo.

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