2 - "L'incontro."

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E per la luce giusta,
Cadendo solo un ombra viola
Sopra il giogo meno alto,
La lontananza aperta alla misura,
Ogni mio palpito, come usa il cuore,
Ma ora l'ascolto,
T'affretta, tempo, a pormi sulle labbra
Le tue labbra ultime.
- Sentimento del tempo (Giuseppe Ungaretti; 1931.)

Astrea correva, correva ignorando le gambe pesanti, scansando i rametti sul terriccio umido, correva con lo sguardo fisso all'orizzonte e la netta sensazione d'inquietudine nel petto magro.
Astrea non badava al caldo, incurante dell'afa estiva ormai in calo saettava verso la radura più distante da Szeged.
Il minuscolo centro abitato era ormai un puntino in lontananza, un accozzaglia di luci soffuse e giallastre come lucciole nel cielo color antracite.
Il vestito rosso sangue di seta spazzava sul terreno fangoso, il tessuto superficiale stretto nelle mani sottili e affusolate.
I lunghi capelli color carbone erano raccolti in una coda scomposta dalla brezza di quel dieci settembre mille novecento quattordici.
Astrea aveva il viso affaticato, le spalle scoperte gelide come ghiaccio e le labbra rosee secche come arbusti nel terreno arido. Eppure il suo unico pensiero era raggiungerlo. I tacchi bianco perla per la festa impregnati di fango marrone e foglie secche avvolgevano i piedi gonfi e pieni di vesciche ma Astrea sembrava non badarvi.
L'orrore della guerra le divorava il corpo e la mente, il terrore si impadroniva sempre più di ogni lembo del suo incarnato. Gli uomini come fantocci trasportati nella polvere da sparo in balia dell'odio per la propria razza.
'Cos'é la guerra?' si chiedeva Astrea.
Le nazioni come barche alla deriva squarciate dagli scogli e l'assassinio dell'arciduca un ignobile pretesto per placare l'appetito di potere.
D'un tratto nella penombra delle fronde in una nicchia scura si ergeva un'orgogliosa sagoma da soldato.
I turchini occhi della giovane riconobbero subito quell'uomo alto dalle spalle larghe con una sigaretta tra le dita ruvide e callose, era voltato di schiena e sembrava ammirare il paesaggio sottostante con aria apparentemente tranquilla.
Il cuore di Astrea si inondò di gioia e soffocò in essa. Quell'uomo era un generale, un generale dell'esercito austo-ungarico, quell'uomo era un soldato vigile e impeccabile, ma prima d'ogni cosa quell'uomo era la sua beatitudine e la sua rovina, la sua salvezza e il suo crimine.
Astrea ammirandolo da lontano, fermandosi nel terreno sconnesso, non poté fare a meno di pensare che per averlo sarebbe finita all'inferno ancora e ancora. Gli occhi le si riempirono di lacrime, lacrime di disperazione per quell'amore malsano e al contempo così giusto, lacrime per quel cuore incrinato che batteva all'impazzata nella sua cassa toracica, lacrime amare per quell'ultima notte di proibita felicità.
Felicità. Suo padre avrebbe definito quel termine un vocabolo volgare, un inezia inutile alla vita d'una signora come lei.
Astrea lasciava scorrere le lacrime come cascate poderose sgorganti da altopiani rocciosi, incapace di proferire parola pensando a suo padre ed i suoi principi così storti e dissonanti alle sue orecchie.
Il milite poi come richiamato dal suo sguardo si voltò e intravide il viso inzuppato di lacrime della fanciulla.
I suoi occhi erano verde smeraldo, verde come la brughiera ungherese, verde come la speranza.
I suoi capelli color dell'ebano in netto contrasto con il berretto dell'esercito sembravano richiamare i motivi rossastri e blu notte dello stemma, e le medaglie sulla giacca verdastra risaltavano come brillanti nella notte.
Il generale Nikólav sembrò sgretolarsi alla vista della sua amata in lacrime e, spento il tabacco, si precipitò verso quel corpo esile e biancastro stringendolo tra le sue braccia forti e possenti da guerriero.
Astrea in silenzio si lasciò cullare beandosi di quelle attenzioni sporadiche e proibite a cui si concedeva Nikólav, posando con estrema delicatezza il capo sulla sua spalla resa spugnosa dalla giacca ruvida come carta vetro.
Non v'erano parole, sospiri, sillabe o consonanti. Astrea voleva parlare, voleva far finta che il suo grembo rigonfio sarebbe sbocciato come una rosa in estate in un tempo felice, voleva fingere che la guerra fosse solo un amaro ricordo, inventare persino che il suo amato non dovesse tuffarsi in un immondo conflitto tra ragazzini troppo giovani per comprendere e adulti accecati dalla foga nazionalista.
Astrea che non aveva mai donato se stessa a qualcuno come aveva fatto con Nikólav, il soldato possedeva la sua anima di cristallo, il suo corpo e ogni angolazione di esso; ogni sguardo ogni sorriso, ogni smorfia ed emozione.
Astrea che aveva rinunciato alla patria podestà fuggendo da Vienna, Astrea che aveva accartocciato il suo passato gettandolo nell'oblio con la speranza di un nuovo inizio, Astrea che ogni notte cercava di figurarsi con ogni angolo della mente il volto del suo generale focalizzando ogni dettaglio, ogni centimetro dell'epidermide, ogni curva del suo meraviglioso viso per poterlo un giorno descrivere a sua figlia; la stessa figlia che sarebbe nata in un mondo corroso dalla distruzione, inondato dalla puzza della putrefazione di vittime innocenti, una bambina senza un padre, un uovo covato a metà in quel nido che Astrea sperava di condividere con il suo unico amore.
Rabbia. Ora Astrea aveva nel petto solo una feroce rabbia assassina per la società degradata, per i potenti divoratori ingozzati di gloria e potere, per quei nobili nelle loro poltrone di velluto lontane troppe miglia dai conflitti, rabbia per i fucili, per gli innocenti in fasce destinati a morte certa, rabbia persino per un futuro incerto come un buco oscuro; il futuro di sua figlia.
Ad Astrea poco importava il suo di futuro, poco importava quella vita che aveva rivendicato fuggendo lontano. Nei suoi diciannove anni di vita era rimasta ad ammirare gli uomini che schiacciavano come formiche le donne dell'alta società e aveva provato un senso di nausea indescrivibile, una repulsione profonda per quegli ammassi di carne variopinti figli di un globo ridotto ad una matassa informe.
Astrea viveva e respirava non per se stessa ma per Nikólav, mangiava per Nikólav, si alzava ogni mattina nel giaciglio scomposto di casa Wajengo per lui, e da una manciata di settimane anche per il frutto del loro amore.
Il fronte calamitava il generale e lo inseguiva rapendolo dalle braccia della fanciulla e Astrea lo sentiva come un sussurro nella notte, un ombra sconosciuta sbucata dall'oscurità, un incubo insinuato nei meandri reconditi della sua mente; percepiva come un dolore fisico quando l'uomo abbandonava il loro sbrigativo talamo, come uno squarcio nella pelle vitrea, uno strappo, uno affondo di fioretto profondo come l'oceano sotto la spalla sinistra.
Ma questa volta balenava nella mente della giovane solo un concetto, un pensiero doloroso come la morte stessa, una percezione vestita di nero con la scure del dolore tra le braccia ossute. L'ultima volta. Astrea percepiva che era l'ultima volta. l'ultima volta che aspirava il suo odore, l'ultima volta che veniva stretta in quella morsa dal sapore di amore e agonia.
Poi d'un tratto Nikólav la stupì, posò con tenerezza estrema la sua mano sul ventre della ragazza carezzando la pelle tramite la stoffa setosa.
- Elzibieta.- pronunciò, fu un sussurro minimo, un leggero fiato sottile che giunse piano alle orecchie di Astrea.
- chiamiamola Elzibieta! - proseguì il soldato.
La futura madre annuì e i suoi occhi tornarono ad essere lucidi.
'Vi prego, vi prego bloccate il tempo, fermate il cosmo; voglio vivere questa scena per il resto della mia esistenza' pensò Astrea, posò la sua mano fredda su quella di Nikólav e annuì di nuovo godendo di quell'istante di apparente quiete.
Il cielo ora sembrava lentamente schiarirsi, e il nero si scostava con cadenzata lentezza per lasciare spazio ad un azzurrino diluito con un grigio appena percettibile, il sole stava per fare la sua comparsa e Astrea avrebbe voluto correre a valle e costringerlo nuovamente giù infondo alla vallata facendo rinascere la notte agonizzante, volse il suo sguardo su Nikólav e notò che ora fissava con curiosità e trasporto il suo ventre; un sorriso si formò sulle sue sottili labbra e la ragazza accarezzò la guancia liscia del suo amato con un sorriso spontaneo e gioioso.
- le parlerò sempre di te, e ti aspetteremo insieme... oppure ti raggiungeremo ovunque tu sarai. - sussurrò, la voce rotta dall'emozione e il cuore che sgorgava una felicità intramontabile mista ad una muta tristezza.
Nikólav non rispose, il suo viso fu sfiorato da dun espressione di dolore mista a consapevolezza che volò via all'istante lasciando spazio a un rinnovato sorriso, tre volte luminoso del precedente, rivolse lo sguardo all'orizzonte e sospirò sognante.
Astrea pensò che come lei il generale non avrebbe mai ammesso che quella sarebbe stata un'ultima volta, e se possibile lo amava ancora di più per questo.
Quel quadretto sembrava qualunque cosa tranne che un addio e a loro andava bene così, soprattutto alla fanciulla troppo debole per reggere le sfaccettature di un estremo saluto.
Stranamente Astrea non sentiva dolore, non sentiva più né rabbia né tristezza, il suo corpo ora era in una bolla di una consapevolezza quasi inesistente, lontana, sbiadita.
Nikólav si voltò e puntò il suo sguardo di smeraldo in quello celeste della ragazza, quegli occhi sembravano comunicare tutto e niente, sembravano urlare tutti i sentimenti possibili e allo stesso momento tacere.
Il ragazzo si sporse e baciò sulla fronte la sua amata premendo sulla pelle le sue labbra sottili come a voler imprimerne il segno, l'incisione. Astrea chiuse gli occhi e li riaprì in un istante come se fosse riuscita a perdersi e poi a ritornare.
Nikólav poi le prese la mano e la strinse con forza nella sua, al milite parve lampante che il suo arto fosse l'esatta metà di quello di Astrea e il suo cuore perse un ultimo e flebile battito.
- arrivederci amore mio. - fu tutto ciò che riuscì a dire. Tutto ciò che formulò e rantolò con voce sommessa.
- arrivederci mio tesoro. - rispose Astrea e per un istante si illuse che quello potesse seriamente essere un arrivederci.
Nikólav si allontanò e allungò il braccio lasciando andare la mano della fanciulla lentamente con riluttanza e profondo agonia.
Astrea lo vide correre verso la pianura a ovest, in direzione del fiume e restò lì a godersi l'alba che sorgeva ignara del suo muto dolore, ignara del suo fiore in grembo, ingrana anche del fatto che Astrea aveva appena perduto il suo unico grande amore.

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