Intro.

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Quella stanza era buia, tetra, scura.
Non c'era luce, tranne quella che quelle tapparelle di un azzurro scolorito filtravano nella stanza. Il silenzio regnava sovrano in quei dieci metri quadri di spazio, contornato da quattro mura, mentre ogni tanto le mie orecchie scorrevano il "bip...bip" della macchina, non sapevo come si chiamasse, quella collegata solitamente ai letti d'ospedale, quella che quel giorno era collegata proprio al mio.
La maniglia di un grigio sbiadito si inclinò, la porta bianca si aprì, scorsi una donna, una signora che dava all'incirca una trentina d'anni entrare nella stanza.
Aveva una divisa azzurra, delle scarpe che le coprivano il piede bucherellate bianche e uno stetoscopio che le contornava il collo.
I corti capelli biondi erano legati in una coda di cavallo che non riusciva a toccare il collo, era molto arruffata, evidentemente quella giornata di lavoro ininterrotto non le aveva permesso di potersela acconciare.
Mi sorrise, prima di avviarsi a sostituire il liquido che poi sarebbe stato iniettato nel mio corpo, per darmi del cibo. Lei era l'unica persona di cui avevo memoria e quella era la solita routine, che andava avanti da più o meno una settimana, da più o meno quando mi ero svegliata.
Non ricordavo nulla, nessuna traccia della mia vita, nessun ricordo di un'eventuale famiglia, nessun sorriso di qualche ragazzo che mi avesse rubato il cuore, nessuna promessa fatta con un'eventuale migliore amica, nessun primo bacio, nessuna prima volta... niente.
Rammentavo solamente da quel 9 dicembre, esattamente sette giorni fa.
Mi ero svegliata, ritrovata in quel letto.
La testa girava, era come se qualcuno me l'avesse ripetutamente presa a calci, come se qualcuno me l'avesse sbattuta contro il muro.
Il medico era venuto lì, nella mia stanza, io non ricordavo niente di tutto quello che mi era successo, come mai mi fossi lì.
"Hai avuto un incidente, signorina Moore.. ehm.. Olivia – prese un respiro profondo, guardando la cartellina grigia che teneva in mano – i suoi genitori purtroppo non ce l'hanno fatta... mi spiace... - leggevo tristezza nei suoi occhi, grigi e tetri. Ma io non rammentavo di loro, non ricordavo neppure la loro faccia, solo la consapevolezza di non avere dei punti a cui riferirmi mi procurava un peso allo stomaco – provvederò io a trovarle una nuova famiglia, una nuova casa, stia tranquilla. Ora lei riposi, la terremo qui ancora per un po'."

Il solo pensare di aver vissuto sedici anni e di non ricordare niente, neppure il minimo respiro, neppure il minimo risolino mi dava il nervoso.
Mi avrebbero dimessa a breve, da Mullingar, la mia "apparente" città natale mi sarei trasferita a Doncaster, in Inghilterra.
Dicevano che mi sarei dovuta creare una nuova vita, delle nuove amicizie, in testa mia pensavo che i miei vecchi amici, se mai ne avessi avuti, mi avrebbero dato per morta, per dispersa.

Forse i medici avevano ragione, forse questa nuova famiglia mi avrebbe aiutata. 


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