one.

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Una luce, forse quella che penetrava nelle finestre illuminava a tratti la stanza.


Aprii gli occhi, sbattendo le palpebre, permettendo alla mia vista di diventare pian piano sempre meno offuscata.


La stanza era buia, come sempre.

L'infermiera, credevo si chiamasse Kate, aveva già sostituito le mie flebo

Non ricordavo nulla, la testa sprofondata sul cuscino impediva al mio cervello di ragionare, di provare a sforzarsi per rammentare, anche un piccolo frammento dei miei precedenti sedici anni.

Sapevo di chiamarmi Olivia Noah Moore, di avere diciassette anni, di aver perso i miei genitori  in un incidente avvenuto circa tre mesi prima, ad ottobre solamente perché il medico me lo aveva comunicato, perché era a conoscenza di quel trauma da cui ero stata colpita circa tre mesi prima: amnesia.

E mi trattenevano lì, con loro in ospedale, perché probabilmente qualche remota speranza che la mia memoria potesse tornare glielo imponeva, ma tutti sapevamo (me compresa) che non sarebbe successo.

Il dottore era alto, magro, con i capelli brizzolati e gli occhi grigi e veniva a farmi visita, ogni giorno, pareva tenesse a me come se fossi sua figlia.

Tutte le mie cose erano sotto quel letto grigio d'ospedale nel quale vivevo oramai da nove lunghe settimane. Certo, non si trattava di vestiti o di scarpe, giocattoli o libri, si trattava delle mie cose intime e personali, ma neanche io sapevo cosa contenesse quello scatolone che era sotto il mio talamo oramai da un mese, quello scatolone che mi ero sempre rifiutata di aprire per paura di affrontare la sola idea della mia vita passata.
E se non mi fosse piaciuta? Mi sarei vergognata di ciò che ero oppure ne sarei stata fiera?

L'orologio ticchettava, ogni tanto mi divertivo a imitarne il ticchettio.

"Tic,Tac. Tic, Tac. Tic, Tac."

E così trascorrevo le mie giornate, perché non avevo nulla di meglio da fare.

Durante quei tre mesi di cui avevo memoria avevo fatto progressi amabili: avevo ricominciato a scrivere, a leggere dei libri, a guardare la tv. Spesso mi divertivo a gironzolare per le stanze d'ospedale e avevo riscoperto l'enorme passione che avevo per i bambini. 
Avevo anche notato che molti ragazzi erano in ospedale, il che mi faceva dispiacere ma anche sentire in ogni caso meno sola.

*Flashback*

Bip,bip,bip.

Quello era un suono omogeneo di una macchina, le macchine degli ospedali che ti controllano il battito cardiaco di una persona e in quel caso la persona ero io.

Ma che ci facevo lì?

Stavo ragionando ad occhi chiusi, non ricordavo niente, avevo solo un gran mal di testa.

Alzai il capo, aprendo piano gli occhi e vidi lei, quell'infermiera bionda dai capelli corti che poi avrei visto ogni giorno, venire per tre volte durante quelle ventiquattr'ore a cambiarmi il sacchettino contenente il mio cibo, perché avevo subito un qualcosa di cui paresse solo io ero all'oscuro.

Continuai a guardarmi intorno, scorgendo un'altra infermiera, stavolta con i capelli ricci e scuri che le arrivavano sin sopra le spalle sorridermi, mi rassicurava, perché evidentemente dall'espressione che la mia faccia aveva assunto riuscivo a comunicare quanto fossi preoccupata, spaventata da quella situazione completamente ignota per me.

- Shh.. tranquilla.- mi sorrise la mora, accarezzando la mia chioma scura con la mano sinistra, mentre con l'altra mano accarezzava le nocche della mia, coperto in parte da nastri che reggevano dei tubicini.

Mi infondeva sicurezza, il suo sorriso, il vedere che probabilmente lei era lì e non se ne sarebbe andata facilmente, forse l'accudirmi, l'infondermi coraggio era la sua volontà e non semplicemente un lavoro per cui veniva pagata.

O forse ero semplicemente io, che non conoscevo più il concetto dell'essere amata da qualcuno, o almeno non ne ricordavo il significato.

- Piccola.. – mi sorrise, quando vide che al solo pensiero di esser voluta bene da qualcuno una piccola lacrima acida era lì, che rigava la mia guancia pallida.
- Va tutto bene, tranquilla, guarirai.. – mi sforzai di impedire alle altre lacrime che erano all'orlo dei miei occhi, che si versarono lente subito dopo aver sentito quel 'guarirai', perché ero malata, anche se non sapevo esattamente di cosa e il ritrovarmi lì, in un ospedale senza conoscerne il motivo non migliorava la situazione.

Era il ventuno gennaio e non smettevo di ammirare il panorama che c'era fuori dalla finestra di quella che oramai era la mia stanza, la tapparella della mia casa.

Era tutto bianco, piccoli fiocchetti di neve cadevano lenti sul suolo, adagiandosi lentamente sul suolo per unirsi pian piano in una stesa tutta bianca, pensai che l'odore della neve, il poterla toccare, il poter respirare a pieni polmoni quella brezza fresca doveva essere una bellissima sensazione.

Ma io ero rinchiusa in quella stanza e non ero mai uscita, non avevo mai respirato quell'aria fresca di ottobre, del giorno in cui mi ero svegliata.

Ci avevo provato, il ventotto ottobre ad uscire, ero curiosa di inspirare a pieni polmoni quella brezza calda che caratterizzava quel mese, ma mi avevano beccata e avevano deciso di chiudere la porta a chiave ogni qualche volta fossi stata sola, mi avevano reclusa.

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