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Passo dopo passo camminavo per un lungo corridoio dalle pareti bianche, lentamente, cercando di tenere quanto più libera la mente da tutto ciò che l'aveva segnata.
Cambiare città era stata la decisione più sofferta e allo stesso tempo liberatoria che potessi mai prendere, pensai.
Alla fine del corridoio vi era una porta color sabbia, chiusa; bussai, non ebbi il tempo di aprirla poiché mi ritrovai di fronte un viso con su stampato un sorriso smagliante, lo ignorai e lo superai addentrandomi nella stanza, c'erano gruppi di persone urlanti come scimmie nella giungla in ogni angolo della classe, tranne in fondo a sinistra, lì vi era un banco vuoto e proprio su di esso mi sedetti.
Pur avendo lo sguardo basso ebbi la sensazione di essere osservato, di fatti alzando il viso notai silenzio e parecchie persone fissarmi. Poggiai la schiena al muro ignorando le molteplici domande da loro postemi; di fronte a me vi erano due balconi chiusi che davano sulla strada, pensai che come edificio scolastico non era male.
Spostai lo sguardo verso la porta attendendo trepidante l'arrivo di una specifica persona, la stessa per la quale, in quel momento, mi ritrovavo in quella bizzarra, rumorosa e fastidiosa classe.
Per circa dieci minuti aspettai con gli occhi chiusi e una dolce e melodica musica alle orecchie, fin quando dalla porta entrò Arianne; sorrisi appena e si avvicinò stampandomi un bacio nella tempia. Sfiorò con le dita delle ferite ormai quasi guarite sul mio viso, con un colpo netto strappai via dal mio orecchio una cuffietta
«Come va oggi?»
Alzai le spalle e scossi la testa «normale.»
Il suo arrivo mi aveva sicuramente tranquillizzato molto, tirai un sospiro di sollievo e mi rasserenai, non ero mai stato un tipo estremamente socievole, lei era proprio come me. Aveva quella perenne aria di malinconia addosso e quella solitudine che la rendevano speciale, quanto meno ai miei occhi. Lei era arrivata nella mia vita come una brezza d'aria fresca per un uomo vivo chiuso in una bara.
Tutte quelle persone in classe la accerchiarono chiedendole chi fossi, cosa ci facessi lì e se fossi il loro nuovo compagno di classe, mi infastidii parecchio, per fortuna pochi attimi dopo entrò in classe un insegnante, che conoscendomi già, non fece domande e iniziò la lezione noncurante.

•••

Le giornate scolastiche passavano serenamente, ognuno aveva imparato a comportarsi come se non esistessi e si era creata un'atmosfera di pace all'interno dell'aula. Quattro giorni dopo il mio primo giorno, però, la giornata si svolse diversamente. Era esattamente un venerdì, ore 9:18, entrò in classe una pedagoga la quale compito scolastico era insegnarci qualunque materia umanistica. Non mi sorpresi quando, entrando in classe, ripose accuratamente il proprio materiale scolastico e tracolla sulla cattedra e mi chiamò accanto a lei.
Silenziosamente mi alzai e la raggiunsi, la classe incuriosita si zittì. Lei cercò il mio nome sull'elenco, fingendo di non sapere chi fossi
«Harold. Benvenuto in questa classe. Io sono la professoressa Parker, presentati pure ai tuoi compagni.»
Mi grattai la nuca imbarazzato, non ero nemmeno sicuro che qualcuno di loro avesse mai sentito minimamente la mia voce prima, scrollai le spalle e abbozzai un sorriso sarcastico.
«Sono Harold Styles. Ho compiuto vent'anni il mese scorso. Non li ho festeggiati, ero in coma.» mi fermai per pochi secondi, mi sedetti sulla cattedra e guardai la strada dal grande balcone in fondo alla classe. «ho perso degli anni a scuola per una serie di motivi, non ricollegabili alla mancata voglia di studiare. Sono nato e ho vissuto ad Holmes Chapel, attualmente mi trovo qui a Bibury per avere un po' di tranquillità; i miei nonni avevano una vecchia casa qui, ora si sono trasferiti, l'ho occupata e mi mantengono loro qui.»
Avevo un tono di voce basso e spento, raccontarmi mi faceva male ma volevo al contempo che tutti coloro in ascolto soffrissero per me, con me.
«Perché in coma?» chiese un ragazzino disabile in prima fila.
«Mi piace il cazzo.» dissi semplicemente tra lo stupore e lo sdegno degli altri. «e alla gente non piace l'idea che a me piaccia il cazzo.»
La mia amica, Arianne, mi rimproverò con lo sguardo, roteai gli occhi e continuai.
«Sono sempre stato un tipo che ama stare per gli affari propri, era notte e avevo voglia di fare un giro da solo per le stradine desolate della mia cittadina. Così verso l'una di notte mi sono fermato di fronte un prato recintato, mi sono seduto su un masso per fumare la mia solita sigaretta notturna. Ogni tanto sentivo passi di qualcuno che probabilmente tornava a casa in una delle tante viottole, ma circa una decina di minuti dopo un gruppo di ragazzi diretti nella stessa stradina in cui mi trovavo io, tra un calcio e l'altro ai sassolini sparsi per strada mi urlarono "hei, frocetto!", li ho ignorati, ma uno di loro avvicinandosi mi ha sputato addosso ridacchiando, mi ha preso per i capelli e mi ha lanciato una ginocchiata dritta sul naso, lo ha rotto e mi ha lasciato cadere a terra. Guardandolo ho notato che aveva dato il consenso ai suoi amici di contribuire, così in pochi secondi mi sono ritrovato immerso in pugni e calci. Dopo poco non sentivo nemmeno più dolore, o forse lo sentivo ma non riuscivo a distinguerne nessuno. Uno di loro mi ha bloccato un braccio dietro la schiena violentemente, tanto che si è rotto. Dopo un ulteriore calcio, nella mascella hanno deciso di mollarmi e andar via. Non ho avuto paura di loro, o di morire, probabilmente mi avrebbero solo fatto un favore, erano già lontani così dalla mia bocca è fuoriuscito un menomato "fanculo". Uno di loro probabilmente ha sentito, così correndo è tornato indietro e con un'asta di ferro arrugginito trovata per terra, ha sferrato il colpo letale colpendomi dietro la nuca. Non sono svenuto subito, ho avuto il tempo di sentire la sensazione di umidiccio sul mio viso, forse era sangue, forse lacrime, o magari entrambi. Comunque, pochi secondi dopo ho perso i sensi e mi sono risvegliato un mese e cinque giorni dopo. Durante il mio coma ho sentito tutto, le urla di mia madre disperata, le lacrime di mio padre bagnarmi la mano. Avrei voluto accarezzarli e rassicurarli. Adesso siamo qui, ci siamo fidati di una cittadina tranquilla all'apparenza. Una settimana fa, mi trovavo su un muretto, osservavo il panorama, sotto di c'era il vuoto; pensavo proprio di gettarmi e lasciar volare via tutti i cattivi ricordi, proprio mentre stavo per farlo una ragazza si sedette al mio fianco con le gambe rivolte verso l'interno e mi porse una cuffietta, era la canzone più triste e bella che avessi mai sentito. Quella ragazza era Arianne, mi ha salvato la vita, si può dire.» lei mi sorrise.
In classe regnava il silenzio, nessuno ebbe il coraggio di fiatare, capii che la professoressa avesse il fiato spezzato in gola, deglutì e mi chiese sotto voce «Davvero? Santo cielo. È sconvolgente.»
Io mi voltai verso di lei e abbozzai nuovamente un sorriso sarcastico «no. Vi prendevo per il culo. Ho solo fatto a botte.»
Così ritornai al posto accanto Arianne. In aula nacque un crescente borbottio proprio da coloro che attoniti lanciavano sguardi di sdegno e disgusto verso di me.

Durante i minuti di pausa tra un'ora e l'altra mi diressi verso il cortile, era vasto e silenzioso, dietro l'angolo c'era una sporgenza sulla quale era seduta Arianne, insieme al suo migliore amico, Io mi poggiai su un muro poco più distante, infastidito.
Mi fece segno di avvicinarmi, il suo amico si presentò, credo fosse spaventato dalla mia persona e anche parecchio imbarazzato. Lo ignorai e accesi una sigaretta distrattamente.


A/N : saalve. Questa è la prima vera storia che abbia mai avuto il coraggio di pubblicare, spero di non star parlando sola, che qualcuno la legga e che piaccia soprattutto.
Segnalatemi pure eventuali errori di distrazione (provvederò a correggere) e sentitevi liberi di far critiche costruttive. Tanti baci.

Between nowhere and goodbyeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora