CAPITOLO 4

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Percorremmo in religioso silenzio quel piccolo giardino. Mia madre si mordicchiava l'unghia del pollice mentre mio padre portava quel suo solito sguardo autoritario sul volto. Io ero semplicemente io, cioè, completamente disinteressata a ciò che di lì a poco sarebbe successo (o perlomeno era quello che cercavo di dimostrare). 

Raggiunto il portico, comincia a percepire l'ansia divorarmi l'anima. Non mi sarei mai veramente aperta con quella donna. Non ne avevo alcun motivo. Mio padre schiacciò appena il tasto del campanello. L'attesa non fu per niente piacevole, perché fu troppo breve. Più tempo riuscivo a rimediare lontano dalla psicologa, meglio sarei stata psicologicamente. Ero consapevole del fatto che quelle cose appena pensate stonassero molto, ma il fatto di dover collaborare con una persona (che oltretutto non conoscevo) per risolvere i miei problemi, mi faceva sentire maledettamente incapace di farlo da sola. Io, invece, sapevo perfettamente di esserne capace, solo, non mi davano la possibilità di dimostrarlo. 

Una donna dai lunghi capelli neri e da dolci fossette sulle guance, ci venne ad aprire il portone con quel che credevo fosse il sorriso riservato ai clienti, o meglio, ai pazienti. Mi sembrava d'aver già visto quel viso da qualche altra parte, ma forse era solo una mia impressione. Ci fece gentilmente accomodare all'interno della sua graziosa villetta con un lento gesto della mano. Aveva tutta l'aria d'essere una di quelle cinquantenni tutte curate e ben mantenute. 

-Sedetevi pure su quel divano.- facemmo tutti e tre come lei aveva detto ed aspettammo che chiudesse la porta di casa e che prendesse posto sulla poltrona dinanzi a noi. Ero più nervosa di quanto avessi previsto. Non andava affatto bene in quel modo, dovevo assolutamente calmarmi. Guardai il salotto in cui eravamo giusto per distrarmi un po'. Era decisamente più grande del salotto di casa mia, anche più bello. Alle pareti azzurre vi erano appesi quadri e fotografie che facevano intendere l'immensa armonia di una famiglia perfetta. Li invidiavo.

-Io sono Anne Cox.- disse sedendosi sulla poltroncina bianca davanti a noi e tendendo la mano a mia madre, incastrata fra me e mio padre.

-Piacere di conoscerla Mrs.Cox. Io sono Jennifer Andersoon, lui è mio marito Ed Wellington e lei è nostra figlia Kimberly.- mia madre le sorrise amorevolmente, quasi chiedendole con lo sguardo qualcosa. Ma cosa? Mrs.Cox tese la mano anche a mio padre e ripeté lo stesso gesto con me. Io non avevo decisamente l'intenzione di entrare in contatto con lei. Era già tanto il fatto che avrei dovuto provare a condividere le mie cose personali. Speravo solo non si sarebbe spinta oltre il limite della parola 'personale'. Non ero sicura di poterlo sopportare.

-Kimberly, non fare la maleducata e stringi la mano a Mrs.Cox!- mi disse mia madre con tono di rimprovero. Inutile dire che non le diedi minimamente ascolto. Mrs.Cox ritirò la sua mano, ma non sembrò affatto amareggiata o imbarazzata. Non dovevo essere stata l'unica ad averlo fatto. Effettivamente, doveva aver di sicuro affrontato situazioni peggiori di questa. La vidi sorridermi, ma io evitai di ricambiare. Preferivo tenere le mie labbra chiuse in una linea dritta che parlare con una sconosciuta. Il sentimento che provavo nei suoi confronti era solo disprezzo, nulla di più, nulla di meno.

-Lasci stare signora Andersoon. Allora, Kimberly, mi concedi il grande ed irripetibile onore di farti un po' di domande? Giusto per conoscerci.- disse sarcasticamente per poi ridacchiare. Forse aveva percepito l'incredibile quantità di tensione che avevo accumulato nel mio corpo e voleva solo sdrammatizzare un po'. Beh, non riuscì nel suo misero tentativo. La guardai dritta negli occhi. Quei profondi occhi verdi li avevo già visti, ma non riuscivo proprio a ricordare dove. Annuii alla sua domanda solo per non sentire di nuovo la voce di mia madre gridarmi contro.

-Perfetto! Allora, prima di tutto vorrei sapere la tua età e che scuola frequenti.- disse afferrando un blocchetto di carta ed una penna dal tavolino vicino alla poltrona sulla quale era comodamente seduta. Se voleva prendere appunti su di me, poteva togliersi fin dall'inizio quella strana idea dalla testa. Non ero mica un individuo da studiare o da analizzare. Non io.

-Non voglio che prenda appunti.- dissi semplicemente, vedendola piacevolmente sorpresa. Ridacchiò appena e mi guardò un'altra volta. Dovevo assolutamente ricordarmi dove avevo già visto quel volto. Mi sorrise e mise via il blocchetto di carta e la penna, riponendoli al loro posto iniziale. 

-Ecco qua. Ora però, ho bisogno che tu mi risponda cara Kimberly.- disse sembrandomi un po' troppo sicura di sé. Mi guardai intorno per prendere tempo. Vidi i miei genitori seduti di fianco a me. Guardavano Mrs.Cox con una certa ammirazione, ma c'era ben poco d'ammirare. Se loro non erano riusciti, in diciassette fottutissimi anni, ad educarmi e ad aiutarmi a risolvere i problemi della vita, non ci sarebbe riuscita neanche la più brava delle psicologhe.

-Ho 17 anni e ho iniziato il quinto anno scolastico alla Wimbledon High School.- risposi. Ero fin troppo turbata dal fatto di dover lasciare dei miei dati personali. Insomma, che le poteva importare della scuola che frequentavo e dell'età che avevo? Le si illuminarono gli occhi ed io mi sentii ancora più confusa di prima. 

-Oh! Quindi conoscerai sicuramente mio figlio!- esclamò sorridendo allegramente. Ma di cosa stava parlando?

-Ehm... qual'è il nome di vostro figlio?- chiesi titubante. Prima che Mrs.Cox potesse rispondermi, il ragazzo che quella mattina mi aveva chiesto l'accendino al Wimbledon Park, fece la sua apparizione nel salotto. Oh. Quel figlio.



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