Il futuro del cibo

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Il futuro del cibo nel mondo rimane una delle problematiche più incombenti alla quale l'uomo deve far fronte per prevenire seri problemi che si potrebbero presentare in futuro, quali l'indisponibilità degli alimenti. Alcune stime riferiscono che la popolazione mondiale è in forte crescita e che entro il 2050 nel mondo ci saranno 2 miliardi di bocche in più da sfamare. I provvedimenti e le azioni umanitarie che ci sono state in passato per diffondere nei paesi in via di sviluppo le avanzate tecniche di coltivazione si sono rilevate poco efficienti e non sono riuscite ad aumentare la produzione mondiale di cibo, che è rimasta scarsa nei paesi più poveri; ciò che desta preoccupazione è il rischio che in futuro non si disponga di cibo sufficiente a sfamare la popolazione mondiale.

Tuttavia non è ancora tutto perduto: ancora oggi è possibile risollevare la produzione mondiale di cibo e grazie a decisioni importanti quale un maggiore investimento nella diffusione dei macchinari e delle tecniche agricole nei paesi poveri, potremmo aumentare la superficie coltivabile e rendere maggiormente efficiente quella già presente; senza però dimenticare il ruolo rilevante che gli ambienti naturali rivestono. In passato, infatti, nei momenti di crisi in cui l'uomo ha dovuto fronteggiare carestie o aumenti demografici, si è proceduto con l'ampliamento dell'area coltivabile disboscando e bonificando immensi superfici e danneggiando così gli habitat preesistenti. Purtroppo ancora oggi, in paesi quali Brasile e stati centro-africani, è presente un' agricoltura di sussistenza, dove cioè gli agricoltori incendiano grandi aree boschive per realizzarvi campi coltivabili; tale pratica è diffusa perché, in seguito all'incendio, il terreno rimane cosparso di cenere che, concimando la terra, permette che tali aree di territorio rimangano fertili. Per i successivi 3-4 anni il terreno rimarrà fruttifero, ma in seguito l'area perderà la sua fertilità spingendo così gli agricoltori ad incendiare ulteriori porzioni di foresta e a lasciare dietro di sé spazi incolti e sterili. Tutto ciò oltre a danneggiare gli ecosistemi presenti, arreca gravi danni anche al pianeta: rende infatti l'agricoltura una delle maggiori responsabili del riscaldamento globale, in quanto causa più gas serra di tutti i mezzi a motore esistenti. Tali gas provengono dal metano prodotto negli allevamenti intensivi e nelle risaie, dai campi fertilizzati e dall'anidride carbonica prodotta dal suddetto sistema della terra bruciata che sta intaccando sempre di più i "polmoni verdi" del pianeta. Inoltre vi è l'inquinamento dell'acqua da parte dei fertilizzanti e del letame che devastano fiumi e laghi.

Ma tali negligenze in futuro non potranno essere tollerate. L'uomo dunque dovrà prestare grande attenzione alla natura e, memore degli errori commessi in passato, dovrà dare più importanza all'ottimizzazione dei raccolti su aree già adibite alle colture piuttosto che al disboscamento delle foreste. Inoltre un utilizzo maggiormente responsabile di pesticidi, fertilizzanti e letame consentiranno una maggior pulizia delle acque.

La "crisi del cibo" ha spinto alcune multinazionali ad investire le proprie attrezzature e materiali nei paesi africani e tale scelta potrebbe rivelarsi vincente. Secondo numerosi studiosi se si potessero creare aree coltivabili nell'Africa sub-sahariana, vasta area fertile ma al momento poco sfruttata e impostarvi coltivazioni intensive oggi si ricaverebbe il quantitativo di cibo necessario a sfamare le future generazioni. Tuttavia il pericolo che alcune multinazionali non rispettino l'ambiente, ma anzi lo violino disboscando le foreste e costringendo la popolazione locale ad abbandonare i propri villaggi, esiste e non va sottovalutato. Un esempio chiaro lo si trova in Mozambico: dal 2004 ad oggi sono stati concessi dal governo circa 2,5 milioni di ettari, il 7% dell'area coltivabile, a multinazionali per coltivare numerose tipologie di prodotto oltre a cibo come prodotti forestali e anche biocarburanti. Tra le multinazionali è presente anche la Hoyo Hoyo, colosso africano che ha acquistato vaste aree di territorio per porvi piantagioni di soia; nel territorio rilevato dalla Hoyo Hoyo erano però presenti, oltre ad aree paludose, villaggi di persone che si erano stabilite da tempo e che coltivavano i campi vicini per sfamare la propria comunità. Ad esse l'azienda africana aveva promesso, oltre ad una scuola e ad un ambulatorio medico, posti di lavoro e nuovi terreni coltivabili altrove, in cambio dell'area occupata dal villaggio; promessa che però non è stata mantenuta. Fino ad ora solo 40 persone sono state assunte dal gruppo, e per di più sono state costrette a ricoprire mansioni poco qualificate e mal retribuite; invece a coloro che hanno acconsentito a trasferirsi, sono stati assegnati terreni poco fertili o molto lontani dalle abitazioni.

Ebbene questi comportamenti irrispettosi nei confronti delle popolazioni locali da parte di multinazionali non dovrebbero e non dovranno essere consentiti dalle autorità del luogo. Se in futuro si vorrà portare a compimento l'ambizioso progetto di recupero dei territori sub-sahariani per la produzione di cibo, si dovrà tenere conto anche della popolazione residente. Essa infatti non dovrà essere sfruttata o oppressa da alcune aziende come è successo fino ad oggi; al contrario sarà bene che da questa grande opportunità di trasformazione agricola gli indigeni traggano giovamento anche dal punto di vista economico, permettendo così alla debole economia degli stati meno avanzati di decollare. Questa è una grande occasione per l'Africa che, se verrà sfruttata, potrà portare benessere a milioni di persone che oggi soffrono la fame e le malattie.

Un'ulteriore possibilità per fronteggiare la richiesta di cibo è rappresentata dall'acquacoltura, una tipologia di allevamento di pesce che si è diffusa soprattutto nella seconda metà del secolo scorso e che oggi viene prevalentemente utilizzata in Asia. Essa permette di produrre grandi quantità di pesce con costi relativamente bassi per il mangime ma che, se non controllata, può rappresentare un grande fattore contaminante per le acque del mare. Fino al decennio scorso, ma in alcune località ancora oggi, gli allevamenti di gamberi, una tipologia di allevamento molto diffusa, erano diventati tristemente famosi per il grave inquinamento che arrecavano alle acque costiere. Inoltre per riuscire a ricavare gli spazi necessari per ospitare le reti dei gamberi, erano state disboscate vaste fasce di mangrovie e così oggi le acque dell'Asia sono gravemente inquinate da una putrida miscela di azoto, fosforo e pesci morti che minacciano gli habitat marini esistenti. Anche in altre zone del mondo in passato si provvedette a diffondere l'acquacoltura, senza badare però all'impatto ambientale che questi allevamenti avrebbero comportato. In Norvegia e Patagonia gli allevamenti di salmone hanno inquinato le acque oceaniche e numerosi allevamenti di gamberi in Mozambico hanno recato gravi danni all'ecosistema.

Tuttavia negli ultimi anni è stato registrato un aumento di allevamenti di pesce ecosostenibili ed un calo di quelli dannosi alla flora marina. Un grande esempio di allevamento ecosostenibile è possibile trovarlo al largo delle coste di Panama. Ivi si trova il più grande allevamento ittico in mare aperto del mondo: qui Brian O'Hanlon alleva centinaia di migliaia di cobia che, in grandi reti, vivono in salute e che, sebbene il loro numero sia considerevole, non rappresentano una minaccia per l'ambiente marino. Essendo in mare aperto e suddivisi in molte reti, il costante movimento delle acque assicura la pulizia degli ambienti dove vivono e il diluirsi delle feci, oltre a purificare le acque, previene anche le malattie. Sulle feci inoltre gli studiosi credono che agisca anche il plancton che, cibandosi di esse, pulisce l'acqua dalle parti restanti degli scarti.

"Questo è il futuro:" sostiene Brian "se l'industria vuole continuare a crescere, soprattutto nelle zone tropicali, deve aprirsi a nuove soluzioni". Cambiare dunque è possibile e se vorremo aiutare e rispettare l'ambiente ed il nostro pianeta dovremo fin da subito invertire la tendenza presa e mirare ad uno sviluppo sostenibile e ad una produzione di cibo più responsabile; soltanto in questo modo potremo garantire un futuro roseo alle generazioni venture.


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