Sibylle

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Sibylle sentì un dolore lancinante alla gamba sinistra. Abbassò lo sguardo e vide una freccia dorata conficcata nella tenera carne, ora ammantata di un rosso cupo. La poca luce del corridoio di pietra dell'antro le permise di valutare l'entità della ferita, ma non aveva né il tempo, né la possibilità di poterla curare. Continuò a correre sebbene fitte violente le partissero dal basso.

Mai un'angoscia simile l'aveva presa. Non riusciva a capacitarsi di ciò che le era accaduto. Un tradimento così profondo da uccidere quasi la sua anima, e il cui grido al cielo era talmente potente da far sfigurare anche il roboante tuono di Zeus.

Per istinto strinse più forte a sé il fagotto che trasportava. Da quest'ultimo proveniva un sordo vagito che ben presto si trasformò in un forte pianto. Era come se la bambina, la sua bambina, avvertisse il profondo dolore della madre. La piccola iniziò ad agitarsi sempre più, scoprendo così il viso piccolo e tondo, e una ciocca dei capelli rossicci bagnati dal sole le scivolò sulla fronte. Nonostante gli occhi arrossati di pianto, il loro colore era inconfondibile. Oro, puro, esattamente come il padre, Apollo, divinità tanto perfetta quanto magnetica, tanto impetuoso e ardente quanto crudele. Ma quelli di Nymphodora erano speciali, come del resto tutto in lei lo era. Era Semidea e avrebbe avuto magnifiche capacità. Era Mortale e sarebbe morta come qualsiasi essere umano, ma c'era qualcosa nel suo sguardo da neonata di infinitamente saggio e antico, qualcosa che sarebbe durato nei secoli. Sibylle, notando ancora una volta la somiglianza tra i due, si commosse immensamente. L'amore illecito verso il suo dio era stato la sua rovina, ciò che l'aveva spinta oltre confini che nemmeno una profetessa come lei poteva oltrepassare.

Sibylle aveva inavvertitamente contrastato un ordine della sua Padrona. Ecate era stata chiara in proposito: nessuno doveva varcare le Terre di Confine. Erano il Nulla. In esse non vi era distinzione tra spazio e tempo, tra umanità e divinità. Tutto era giusto e al contempo sbagliato, ogni cosa si compensava con il suo contrario per creare un'immagine, un'invocazione, di una perfezione che a nessuno è concesso poter contemplare. La pena è la morte. Quel frutto proibito era stato un richiamo per Apollo: lui le aveva ordinato, mascherando la richiesta e la sua cupidigia con un'accorata supplica, di superare la soglia mai violata, di rendergli dono di tutte le conoscenze dell'universo. Ormai Sibylle sapeva. Ma ciò che le faceva più male era che a toglierle la vita sarebbe stato colui che più amava al mondo oltre sua figlia. Apollo aveva riportato tutto alla Padrona, una volta appurato che la donna non gli avrebbe rivelato alcunché. Ora era alla sua ricerca, per giustiziarla, su ordine di Ecate stessa, Padrona e Madre, Seviziatrice e Balia.

Egli non teneva a lei; una volta conquistata la preda, una volta appreso che lei non avrebbe aperto bocca, l'aveva abbandonata senza alcun riguardo.

A quel punto a Sibylle non importava nulla se non portare al sicuro la sua Nymphodora. Intendeva lottare per lei con tutte le sue forze, fino all'ultimo suo respiro e non avrebbe rinunciato per nessun motivo.

Riscuotendosi dai propri pensieri, strinse maggiormente la bambina ed ella tacque grazie al tocco della madre.

La giovane donna sentì dei passi dietro di sé che si avvicinavano, pericolosamente in fretta ed altri, ancor più veloci e metallici: Apollo era affiancato dalle Empuse, avide sanguisughe al servizio di Ecate, la parte superiore di donne bellissime dalle lunghe e sottili zanne e la metà inferiore fatta completamente di bronzo. Sarebbero state loro a dare il colpo di grazia.

Sibylle era quasi giunta alla fine di quel lungo corridoio di pietra dal soffitto trapezoidale. Riusciva a scorgere la parete di fondo piena di muschio verdastro illuminato in parte dall'alta fessura sulla sinistra. Una piccola fiammella di speranza si accese nel suo cuore reso marcio dal dolore.

Finalmente arrivò al termine del tunnel e osservò distrattamente, anche se era la sua ultima occasione per farlo, quella grotta dalla strana struttura, giallognola, il cui soffitto terminava a volta.

Entrò con sicurezza nell'enorme nicchia sulla destra, quella più oscura, il suo Oikos Endotatos, in cui vi era il suo trono e altare dall'alto del quale dispensava i suoi vaticini incisi con il fuoco sulle foglie di palma. Il fuoco non le bruciava perché non era frutto della natura, bensì un dono, o forse una maledizione, fattole da Ecate.

Si abbassò e cercò a tentoni un rilievo d'oro alla base dell'altare di solido tufo. Trovatolo, lo premette e di fronte a lei la parete iniziò pesantemente a scostarsi, facendo un gran rumore di pietra che sfrega contro altra pietra. Attraversò rapidamente il portale di cui soltanto lei era a conoscenza, una conoscenza che veniva tramandata soltanto alle profetesse della stirpe Sibillina. Esso si richiuse immediatamente dietro di lei. Tutto era buio, ma Sibylle riusciva ugualmente a vedere. Un altro dei cosiddetti doni della Dea.

Dovette percorrere circa uno stadio prima di trovare il muro che avrebbe funto da secondo portale e da uscita. Una volta fuori, sentì l'erba fresca sotto i piedi scalzi e indolenziti. Una sensazione di benessere si impadronì di lei. Sapeva di essere giunta alla fine, ma aveva almeno guadagnato degli attimi preziosi che le avrebbero permesso di nascondere la sua bambina, la quale ora dormiva tranquilla attaccata al suo seno.

Corse ancora, e ancora, lasciando macchie rosse dietro di sé, una chiara traccia per le cacciatrici di Ecate, ma ormai sapeva che ci sarebbe riuscita. La vegetazione si faceva via via più fitta. Non le restava più molto tempo. Sentiva la presenza del suo amato e delle fiere dietro di sé. La loro ira era tale che Sibylle riusciva a percepirla anche da lontano. Vide un albero cavo a pochi piedi da lei e vi si avvicinò. Era abbastanza grande da poter celare un neonato alla vista. E così fece. Vi pose all'interno la sua piccola. La sua adorata Nymphodora. Praticò su di lei un semplice, ma potente incanto in modo da assopire i poteri della bimba fino a quando non avesse compiuto i diciotto anni di età.

Soppresse anche le conoscenze che aveva acquisito nelle Terre di Confine, nessun essere, umano o divino, avrebbe mai immaginato che una tale potenza fosse stata rinchiusa in lei, perché Nymphodora stessa non avrebbe saputo di poter diventare più potente dello stesso Padre degli Dei.

Con questo sistema intendeva proteggerla, di più non poteva fare.

Baciò per l'ultima volta ciò che più le era caro e, mentre Nymphodora iniziava a piangere disperatamente, Sibylle, con il cuore a pezzi, corse via, per sempre.

Poco dopo per tutta la selva risuonò un urlo acuto di donna. Sibylle era stata inghiottita dal sole.


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