Chapter 1. Ricominciare.

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È facile scegliere di morire, di farla finita. È più semplice restare fermi in un angolo a piangersi addosso e lamentarsi, piuttosto che alzarsi in piedi e tentare di cambiare le cose. Perché, in fondo, il cambiamento ci fa paura, è qualcosa che non possiamo controllare e alla quale siamo totalmente impreparati. Nessuno ci da un libretto delle istruzioni per insegnarci a vivere e, si sa, nel mondo incontriamo troppe maschere e davvero pochi volti.

Io ero una maschera, come tanti, incapace di cambiare. Avevo aspettato che qualcuno mi cambiasse, che qualcuno mi aiutasse ad uscire da quel bozzolo e mi facesse vivere.

Volevo solo una motivazione, un incentivo e, non riuscendo a crearlo, avevo deciso che era meglio smettere di provarci. La morte fa meno male, è sicura, non ti porta a fare delle scelte. Ti avvolge e ti porta con sé... ma non ti fa vivere, non ti fa battere il cuore dall'emozione di una bella giornata, non ti da il permesso di realizzare i tuoi sogni. Siamo davvero sicuri che morire piuttosto che lottare sia la cosa giusta?

Mi svegliai di soprassalto, sentendo delle voci in lontananza. Intorno a me era tutto buio e non riuscivo a muovermi.

《Il ragazzo ha perso molto sangue, ma siamo riusciti a salvarlo.》riuscii a capire cosa dicesse una voce maschile, seguita subito dopo da quella che riconobbi come la voce di mia madre.

《È tutta colpa nostra, dovevamo saperlo. Al diavolo tu e il tuo stupido lavoro! Tutto questo non sarebbe successo se non mi fossi lasciata coinvolgere da te!》

Fui sorpreso nel sentire mia madre alzare la voce e... singhiozzare. Non la sentivo farlo da quando ero piccolo. Prima era diverso, vivevamo in una piccola casa ed eravamo solo io e lei, mentre mio padre lavorava.

Avevo tutto ciò che potessi desiderare: l'amore incondizionato di una madre sempre presente e pronta ad ascoltare e coccolare il suo ometto. Poi crebbi e mio padre decise che per il mio futuro avevano bisogno di denaro e per avere successo aveva bisogno di sua moglie al suo fianco.

Fu l'ultimo giorno in cui vidi lei, la vecchia casa e i miei amici. Era facile, da bambini, avere degli amici, loro non mi guardavano come lo sfigato che balbetta e si nasconde da tutti all'ora di pranzo.

Tentai invano di muovere un braccio verso di lei. Nonostante ce l'avessi con loro, sentirla piangere in quel modo mi faceva male. No, non era colpa loro. La colpa era solo mia se non ero riuscito a morire. Sentii dei bip aumentare e persi conoscenza, mentre cadevo in balia degli incubi.

Rividi i miei compagni prendermi in giro, quanto erano difficili le interrogazioni per la vergogna di parlare, quante volte mio padre mi aveva scoperto con l'mp3 nelle orecchie e mi aveva insultato e sequestrato l'unica cosa che mi teneva legato alla musica e fuori dal mondo.

La musica mi aveva accettato, non mi aveva mai chiesto nulla e ogni volta che mi ritrovavo a piangere in bagno mi teneva compagnia e riusciva sempre a trovare delle parole per tirarmi su. Talvolta mi ritrovavo a pensare per assurdo a come avrei voluto fosse stata la mia vita e, iniziando a canticchiare e scrivere canzoni al pianoforte, immaginavo di essere bello e bravo al punto di iscrivermi a uno di quei concorsi famosi per cantanti di talento.

Mi sarebbe piaciuto tanto diventare un cantante, anche se non potevo, anche se non valevo così tanto. Non volevo avere successo, volevo solo essere felice con la mia amata musica, creando e sentendo melodie nuove, perdendomi in esse.

Per me, la musica era come una corsa a perdifiato verso un qualcosa di prezioso da raggiungere, quella corsa che continuava, che doveva continuare, che volevi continuasse quando i polmoni non avevano più aria. Era qualcosa che mi donava speranza, qualcosa per la quale lottare o, semplicemente, una chitarra da lanciare sul divano e con la quale strimpellare note incoerenti finché le corde reggevano. Era la voglia matta di dire qualcosa e la paura di non poter dire tutto perché avevo un mondo intero dentro.

Don't let me go || Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora