Secondo Capitolo

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Mi ritrovai di fronte alla porta d'ingresso di quella casa che racchiudeva i ricordi più belli della mia vita. Mi voltai, ancora, per salutarla un'ultima volta. Poi mi presi di coraggio, sospirai e attraversai il vialetto colmo di rose colorate piantate da papà e mamma.
Erano i suoi fiori preferiti, così un giorno papà tornó a casa dal lavoro con due enormi casse piene di fiori che piantarono insieme quello stesso pomeriggio.

Arrivai sul ciglio della strada e mi piantai lì, osservando con disappunto quel furgone ed esitando a salire in auto. Tommy era già comodamente seduto sul sedile posteriore e stringeva fra le braccia il pallone con cui giocava fino a pochi minuti prima. Papà aveva già messo in moto e mi guardava dall'interno dell'auto con uno sguardo tra l'esaltato e il compassionevole. Probabilmente era eccitatissimo per il viaggio. Insomma, una nuova casa, una nuova città e una nuova quasi moglie, lo stavano aspettando dall'altro lato del mondo; chiunque sarebbe stato esaltato all'idea. Allo stesso tempo però, si rendeva conto di quello che mi stava facendo. Avrei lasciato tutto il mio mondo, la mia casa, i miei amici, la mia scuola, i prati in cui adoravo sdraiarmi nei caldi pomeriggi d'estate a leggere un buon libro. Tutto.

Tra le altre cose, sapeva che non adoravo affatto Lillian. Non che avesse fatto qualcosa di sbagliato, ma non avrebbe mai preso il posto di mia madre e mi faceva rabbia pensare che invece per mio padre potesse essere così. In fin dei conti, stava cambiando radicalmente tutta la sua vita per stare con lei e questo non mi piaceva. Era disposto a lasciare andare tutti i ricordi per stare con lei, ma io no. Io non lo ero.

Così, senza dire niente, mi lasciò qualche momento ancora lì davanti, piantata al suolo. Mi sorrise teneramente, ma non ricambiai. Mossi qualche passo avanti e aprii la portiera dell'auto per poi prendere posto accanto a mio padre. Prese la mia mano e la strinse forte prima di riporla nuovamente sul volante e premere l'acceleratore.
Guardai la mia casa allontanarsi sempre di più all'orizzonte fin quando non la vidi più, ma non distolsi lo sguardo per il resto del viaggio.
Il tragitto fino all'aeroporto più vicino durò circa un'ora e Tommy e papà non fecero che cantare stupide canzoncine per far passare -a loro dire- il tempo più velocemente anche se francamente, per me non sembrava passare mai.

Una volta arrivati, scaricammo i bagagli e facemmo il check in per poi salire sull'aereo e prendere posto.
- "Si pregano i passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza, stiamo per decollare".
Delle giovani hostess in tailleur che mi ricordavano tanto la nuova compagna di papà, facevano avanti e indietro per i lunghi corridoi dell'aereo controllando che tutti rispettassero l'obbligo di allacciare le cinture. Era la prima volta che volavo e non nascondo che ero molto nervosa all'idea. Tommy invece sembrava contento a giudicare dal suo sorriso a trentadue denti.
Qualche minuto più tardi sentì le ruote dell'aereo staccarsi dal suolo per poi prendere il volo. Strinsi inconsapevolmente la mano di mio padre, seduto accanto a me e strizzai gli occhi per non guardare. A Tommy e papà sembrava divertire quella scena, così feci un finto broncio e scoppiai a ridere anch'io. Era ormai da molto che non lo facevo con papà.

Guardai fuori dal finestrino dell'aereo e rimasi stupita da quel che vidi. Pareva quasi di volare tra nuvole di zucchero filato e la terra sembrava lontanissima da noi. Dopo aver ammirato questo panorama mozzafiato, iniziai a sfogliare qualche rivista che mi porse una delle hostess dopo avermi offerto da bere e qualcosa da mangiare. Tommy e papà guardavano un film sul tablet. Mi addormentai.

Le ore trascorsero velocemente perché fui svegliata da una voce familiare.
- "Gentili passeggeri, tra pochi minuti atterreremo all'aeroporto di Seattle".

A quelle parole aprii gli occhi e i primi raggi del sole mi accarezzarono il viso. Il viaggio era durato tutta la notte ma non me n'ero neanche resa conto.
Svegliai papà e Tommy che dormivano ancora e porsi loro un bicchiere di succo fresco alla pesca.

- "Benvenuti a Seattle".

L'aereo atterrò dolcemente per fortuna, e nonostante fosse stato un viaggio piuttosto piacevole, ero contenta di sentire di nuovo il suolo sotto i miei piedi. Una volta scesi dall'aereo, andammo a ritirare i nostri bagagli dal nastro trasportatore e varcammo la porta d'uscita dell'aeroporto.

Ad aspettarci, Lillian. La vidi in lontananza con il suo solito tailleurino elegante che portavano anche le hostess sull'aereo. I capelli, biondi, raccolti in una lunga coda alta, perfettamente tirata dovuta probabilmente ad un'intera confezione di lacca. Tacchi alti e neri. Un paio di occhiali da sole dello stesso colore le nascondevano gli occhi di cui, francamente, non ricordavo nemmeno il colore. Quella era una delle poche volte che vedevo Lillian. Non veniva spesso da noi, considerata la notevole lontananza e ne ero felice.

Sollevò gli occhiali sul capo con una mano e agitò l'altra per salutarci. Papà sembrava davvero contento di rivederla, glielo si leggeva negli occhi.
Tommy camminava altrettanto spedito verso di lei trascinando con sé il suo piccolo trolley rosso.
Ancora una volta mi sentii l'unica ad essere contraria a tutta quest'irritante situazione.

Papà le corse incontro dandole un caloroso abbraccio e stampandole un bacio sulla fronte coperta da fondotinta. Sembrava piacerle sul serio ma non riuscivo ancora a realizzare tutto quello che stava succedendo.

- "Ciao ragazzi!! Tommy, quanto sei cresciuto!! E tu sei sempre bellissima, Chloè!!"
Le passai accanto senza nemmeno salutarla e mio padre mi lanciò un'occhiata gelida mentre leggevo la delusione stampata sul volto di Lillian.
Lui le sussurrò qualcosa all'orecchio e le accarezzò una guancia sorridendole dolcemente.

Salimmo in auto. Il viaggio fu abbastanza deprimente e nessuno proferiva parola, tranne papà che cercava, con un filo di imbarazzo, di intavolare una qualche conversazione.
Ero a Seattle da pochi minuti e già la detestavo. Guardando dal finestrino non riuscivo a vedere altro se non grattacieli che coprivano il paesaggio e addirittura il sole, e interminabili colonne di auto. Centinaia e centinaia di automobili piene di uomini e donne che suonavano senza sosta il clacson creando una confusione inimmaginabile. Gente che camminava frettolosamente sorseggiando enormi bevande acquistate quasi sicuramente da Starbucks, spingeva e sorpassava chiunque come se stesse per perdere il treno. Ma cos'era questa confusione? Dove accidenti correvano tutti?
Insomma Painswick era tutta un'altra storia. Ci si rincorreva sui prati, non si correva per la strada. Qui invece, nessun prato. Il silenzio probabilmente, non sapevano nemmeno cosa fosse e si respiravano solo gas di scarico. Per non parlare del tremendo grigiore che metteva una tristezza incredibile. Nessun albero, nessun fiore. Solo strade e palazzi alti metri e metri e macchine. Tutto qui.

Ansia. E fretta. Questo trasmetteva. Nulla a che vedere con un paesino di 2.070 abitanti. Ad un tratto ci arrestammo di fronte ad una villetta in mattoni circondata da una staccionata in legno. Finalmente la corsa era finita.

Stay. [HarryStyles]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora