Capitolo 3

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-Sarà stato difficile, l'ambientarsi in Italia. –

-Mio padre mi ha sempre parlato in italiano, ma iniziare un liceo classico con delle basi più o meno sufficienti è da matti. –

Il cameriere porse il conto all'uomo, con garbo. Certi riti classici non andavano spezzati: Victoria estrasse il portafogli, lui le disse che avrebbe provveduto da sé e lei rimise la pochette nella borsa. La giornata poteva continuare, si erano disegnati certi schemi inviolabili.

-Come sono logorroica... e imbarazzata, adesso. Vorrei tornare a casa ed affrontare i miei ospiti, se permette. –

-Oh, non oserò sottrarla al suo destino. – rise animatamente.

Lui le posò una mano sul collo e avvicinandola a sé più che poteva, le baciò una guancia. Lei non era donna da bacio, non era donna da cerimonie e tuttalpiù non era donna garbata. Ebbe la sensazione che lui non l'avesse ascoltata, semplicemente perché non aveva aggiunto più di tanto. Il pensiero che fosse in verità un uomo così poco interessante la spaventava. Era il sodo che voleva, il centro del centro, non poteva essere la volta sbagliata.

Tornando verso casa ripensò al fatto che avrebbe dovuto programmare una di quelle liste dal titolo monotono come Propositi per il nuovo anno o Idee per un anno migliore o ancora Cose che prometto di fare e che non faccio mai anche chiamato Come farmi sembra molto più cattiva di quanto non sia già.

Il cellulare della donna, che ormai aveva il suono di un centralino, squillò di nuovo e di nuovo la terrificante vista di quel nome la impietrì.

-Pronto? – chiese come se servisse a qualcosa.

-Vicky, Caroline ha le sue cose. Avanti, hai capito! Per qualche giorno interrompiamo le riprese e tutto. –

Si chiese a cosa servisse la disposizione dell'egregia Carol, ma non osò domandare vocalmente.

-Cosa farò in questi giorni? Posso tornare a casa? –

-Tesoro, questo lo devi chiedere ad Amelia. Mettetevi d'accordo. Un abbraccio. –

Lui sistemava sempre tutto in maniera sconvolgentemente rapida, come i problemi non esistessero.

Aperta la porta di casa e guardatasi intorno per assicurarsi della mancata presenza dei due, gettò la borsa su un divano e si stese sull'altro. Analizzando la fantasia del copri-divano cercò, nel database del suo cervello, l'ultimo evento razionale che le fosse accaduto, escluso qualsiasi incontro contrattuale e non.

-E anche la macchina per il caffè americano. – disse al silenzio.

-E poi l'armadio Ikea, il divano Ikea, la porta Ikea, le mattonelle Ikea, il cibo Ikea. –

Si alzò in piedi, dirigendosi verso la parete attrezzata del soggiorno. Aprì più o meno tutti i cassetti che, vista la dimensione ridotta del soggiorno, avevano meccanismi geometrici imbattibili.

-Oh, dovrei sposarti signor Ikea. Almeno le farei io, le cose sporche, la notte, nel tuo letto. –

Immaginò i suoi futuri giorni felici e il fatto che un lavoro così non le sarebbe pesato abbastanza. Sedutasi alla postazione computer, digitò nella ricerca alcune parole chiave come "università", "Roma" e "Lettere classiche".

Il registino l'avrebbe uccisa, lapidata viva, ma amava vederlo urlare come una tartaruga in calore, quando si arrabbiava per la sfumatura sbagliata del grigio topo del vestito di Miss. Sonosolounacomparsa.

Decise in pochi minuti, rapida come mai prima, che l'indomani sarebbe andata in sede ad informarsi per le lezioni. Il costo fu l'ultimo dei suoi pensieri, ma ciò che avrebbero pensato di lei era al primo posto. La paura di fare una vita sregolata e senza limiti di tempo, le impedì di ripensarci. Così, nonostante la sera prematura e lo stomaco vuoto a metà, andò a dormire sul suo divano Ikea, sognando di quell'uomo che lo aveva creato.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 10, 2015 ⏰

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