Lei

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«Dai, Ana. Faremo tardi!»

«Sto arrivando. Voglio solo assicurarmi che...»

«Piccola, i bambini sono in ottime mani. Ora salutali e andiamo: il jet ci aspetta.»

Mia moglie. Da quando erano nati i bambini non li lasciava mai soli, tranne per andare a lavoro. Finalmente, però, dopo quattro anni da quando era nata Phoebe, era ora che ci prendessimo una vacanza. Avevamo bisogno di rilassarci, stare soli senza stress da pianti isterici e chiamate di lavoro urgenti. La mia principessina aveva un po' piagnucolato, ma chiunque lo avrebbe fatto: io e Ana saremmo andati nel nostro attico a New York per due settimane; sfido qualunque bambino di quattro anni a non piangere perché le mancheranno la mamma e il papà. Ted invece ci aveva stretto le gambe e aveva detto che avrebbe pensato lui alla sua sorellina. Quel bambino mi somigliava sempre di più.

Una volta saliti sul SUV, Taylor ci accompagnò all'aeroporto, da dove sarebbe partito il nostro jet privato per New York. La strada che portava da casa alla pista di decollo non era molta, ma vedevo sul volto di mia moglie un'espressione di nostalgia: era chiaro che le sarebbero mancati i nostri figli. Sospirai e senza farmi vedere, cliccai sul tasto che alzava il vetro che separava il sedile anteriore da quello posteriore.

«Staranno bene. Gail e Taylor li terranno d'occhio; inoltre Sophie sarà lì e sai quanto Ted adori la figlia di Jason.» ero più che sicuro che avesse bisogno di rassicurazioni, ma ero anche sicuro che una volta atterrati avrebbe chiamato a casa per sapere se andava tutto bene.

«Oh, Christian. È la prima volta che ci separiamo da loro e sono un po' preoccupata. Come fai tu a essere così tranquillo?» a quella domanda, un sorriso aleggiò sulla mia bocca. Mi aveva sempre definito maniaco del controllo, ma in quel momento ero anche io in apprensione. Le presi la mano tra le mie e le baciai le nocche. Si rilassò un poco ma non abbastanza quanto avevo sperato; la scrutai con i miei occhi e quando incontrai i suoi azzurri, sentii un brivido percorrermi la schiena.

«Due settimane passano in fretta. E non provare a chiamare Gail ogni mezz'ora o ti sequestro il BlackBerry.»
La sua reazione a quella frase fu buffissima. Dapprima spalancò la bocca, poi inarcò le sopracciglia, socchiuse gli occhi e infine incrociò le braccia sotto il suo seno. Se avesse potuto, avrebbe soffiato fumo dalle narici come i tori. Dovetti mordermi il labbro per non scoppiarle a ridere in faccia.

«Oh, piccola. Sono preoccupato anche io, ma so che Gail è un'ottima bambinaia, quindi cerco di pensarci il meno possibile.» la sua espressione si rilassò visibilmente, ripresi le sue mani fra le mie e le accarezzai le nocche. Teneva gli occhi chiusi, come se stesse assaporando tutto ciò che le stavo facendo. Emise un profondo respiro e, molto velocemente, si slacciò la cintura e salì sulle mie ginocchia. Non feci in tempo a dirle niente che le sue labbra si posarono sulle mie. Mi diede un bacio dolce e appassionato, dandomi le vertigini. La strinsi a me, baciandola più a fondo, intrecciando le lingue. Continuammo a far scontrare le nostre bocche per diverso tempo; saremmo andati avanti ore se Taylor non avesse bussato sul vetro separatore per avvisarci che eravamo in aeroporto.

«In aereo riprendiamo questo discorso interrotto» le dissi severo. Scendemmo dall'auto e, dopo aver salutato il mio fidato braccio destro, salimmo la scaletta del jet. Stephan e la nostra hostess personale erano lì a darci il benvenuto a bordo. Scambiai due chiacchiere col primo pilota, mentre Ana chiedeva a Natalia alcuni posti che avrebbe potuto visitare nella Grande Mela.

Ci preparammo per il decollo: presi la mano di Ana nella mia, conoscendo la sua paura in quel momento del volo insieme all'atterraggio, cercai di tranquillizzarla in questo modo. Solo quando volavamo con Charlie Tango non potevo farlo. Proprio pensando al mio elicottero, mi venne un'idea al proposito.

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