Prelude.

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Camminava da circa un paio d’ore nel parco della scuola.     

Quel biglietto di carta pregiato ormai sgualcito nella mano destra, stretto nella morsa di un pugno che non ricordava nemmeno di aver chiuso.

Non importava se quel giorno un insolito vento faceva fremere le fronde degli platani, le cui foglie iniziavano ad assumere la classica tinta gialla dell’autunno, e le entrava fin dentro le ossa, costringendola a rabbrividire nella camicia bianca.

Doveva continuare a camminare, a vagare senza meta, se voleva restare integra, se non voleva lasciare che quel vento lambisse anche lei e la facesse a pezzi. Tante, minuscole parti di lei lasciate a marcire sul terreno, come foglie morenti.

Si schernì mentalmente una dozzina di volte: sapeva fin troppo bene che quel momento sarebbe arrivato alla fine. Eppure, scioccamente aveva creduto che la primavera, l’estate, non avrebbero avuto mai fine. Che avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per farsene una ragione. Povera stupida.

Lui non aveva fatto promesse, se non quella di rispettare il patto: non avrebbe creato complicazioni e non avrebbe avanzato pretese su di lei. Era stato fin troppo chiaro sin dall’inizio: non era un legame fatto per durare per sempre.

Era esattamente tutto quello che lei non avrebbe mai potuto accettare; andava troppo al di là delle sue convinzioni, dei suoi valori. Non comprendeva una relazione dove non c’era amore, dove non si progettava nulla insieme. Cionondimeno, forte del suo orgoglio e della sua presunta superiorità, aveva creduto che le sarebbe bastato. Che avrebbe potuto divertirsi con lui, senza rimpiangerlo.

L’orario dell’appuntamento era passato da un paio di minuti, ma non avrebbe potuto mancarlo per nulla al mondo: in fin dei conti erano settimane che non lo vedeva. Tuttavia, soltanto Dio poteva immaginare quanto avrebbe voluto svanire in quel preciso istante, avere un modo per non affrontarlo, per evitare tutto quanto.

E, sebbene fosse tante cose, Hermione Granger non era una codarda.

Avrebbe indossato la sua maschera migliore e recitato la parte che intimamente aveva provato miliardi di volte nella sua testa.

Non avrebbe pianto, né supplicato. Non avrebbe esitato, non si sarebbe piegata. Non avrebbe provato niente.

E sarebbe stata una perfetta bugiarda, proprio come lui le aveva insegnato.

La guferia sembrava un rudere abbandonato a se stesso in mezzo al parco.

Le ombre che il sole, tramontando, iniziava a proiettare sui mattoni grezzi, facevano sembrare quel torrione ancora più vecchio e malandato. Le strida dei gufi e delle civette riempivano l’aria, riecheggiando come un lamento e salendo fin sopra al tetto circolare.

Si fermò un istante a guardarsi intorno, sia per accertarsi che nessuno l’avesse notata, ma soprattutto per assicurarsi che nessuno si stesse avventurando verso la torre. Concesse a se stessa un ultimo respiro profondo, prima di varcare la soglia ed iniziare a salire le scale fino al primo piano.

Non poté non storcere il naso al sentire l’odore acre che si levava attorno a lei, come una nube persistente, gradino dopo gradino, né poté evitare di soffermarsi qualche istante accanto alla feritoia in cima alle scale, che affacciando sull’esterno permetteva di respirare una sana boccata di aria pulita.

Lui era là, seduto alla spartana scrivania di legno che faceva bella mostra di sé accanto ad una rastrelliera dove riposavano un paio di gufi, gli occhi gialli socchiusi e con il collo infossato tra le piume rigonfie.

Aveva tra le mani una penna, che rigirava distrattamente tra le lunghe dita affusolate. La cravatta allentata ed il colletto sbottonato come se facesse fatica a respirare. I capelli gli ricadevano intorno al viso, sulla fronte, stranamente scomposti. Considerò che non era da lui presentarsi in modo così sciatto, eppure fu un pensiero che balenò nella sua mente solo per un secondo, prima che tornasse alla realtà e realizzasse che gli occhi di lui la scrutavano da lontano.

A Mal Foi Pacte.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora