Capitolo 1

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1. Sette e quarantasette.

«Sophie! Sophie!», bisbigliò qualcuno, risvegliandomi dal mio piacevole sonno. Mugolai qualcosa di incomprensibile, e poi nascosi la testa sotto al cuscino morbido e corposo. «Non mi ignorare anche tu, Soph», risentii quella voce, e la riconobbi. «Voglio dormire, Jackson», bofonchiai con la voce impastata dal sonno. Ebbi sollievo per qualche minuto, finché qualcuno non bussò con forza alla mia porta. «È la mamma!», spalancai le palpebre e balzai seduta. Afferrai in fretta il polso di Jackson e lo trascinai fino all'armadio, e ignorando le sue risate e i suoi gemiti, lo chiusi lì dentro. «Non far baccano. Non mettermi nei guai», ordinai sussurrando prima di affrettarmi verso la porta. Afferrai la maniglia e la girai. «Sophie, vieni. La cena è pronta», disse facendomi un bel sorriso. «Arrivo subito, mi infilo qualcosa», dissi prima di riaccostare la porta. Sentii i passi della mamma allontanarsi, e sospirai dal sollievo quando riaprii l'anta dell'armadio. Jackson rimise piede a terra, e poi sorrise. «Peony. Dove eri finita?», domandò. Indossava una canottiera smanicata, che lasciava nude le muscolose braccia cosparse di tatuaggi. «Dormivo. Tu piuttosto.. Cosa ci fai qui?», la mia voce lasciava trapelare quanto fossi ancora tra le braccia di Morfeo. Mi strofinai gli occhi con i pugni. «Me lo chiedi ogni sera, sai Peony?», disse, e si gettò sul mio letto dove erano rimasti sparsi tutti quei libri. «E tu non mi rispondi mai», risposi pescando un maglione dall'armadio. «E mi chiamo Sophie», lo rimproverai e lui ridacchiò. «Come vuoi Peony.» Infilai quel maglione giù per la testa e poi anche per le braccia.
«Volevo chiederti scusa per stamattina», disse con un tono basso, con del velato senso di colpa. Dalla finestra si insinuò una folata di vento che mi sferzò i capelli. Me li riavviai dietro all'orecchio, e mi misi a quattro zampe sul lettone, cercando il mio elastico. «Alzati Jackson», mi spazientii. Si spostò di poco, e lo presi in mano. «Lasciali sciolti Soph», me lo rubò di mano. «Mi aspettano di sotto. Non farmi perdere sempre così tanto tempo..», cercai di riprendermelo inutilmente. Jackson era dispettoso sin da quando eravamo bambini, ma con gli anni era nettamente peggiorato. Mi faceva fare sempre tardi, con il suo fare beffardo e provocatore. «Mi lasci solo? Mi annoierò», piagnucolò, mostrando il suo dolce sguardo da cucciolo. Sorrisi, «c'è mio zio questa sera. Non posso dire di non avere fame come ieri.» Mi rese l'elastico, e legai i miei capelli rossi in una lenta e frettolosa coda. «Mi dispiace per stamattina», ribadì, e il poco accentuato sorriso scomparve. «Non è successo nulla. Non serve che tu mi dia i passaggi tutte le mattine..», abbassai lo sguardo. «Hai preso lo scuolabus..», disse ed io mi irrigidii al ricordo di quella mattina. «Basta. Ho detto che non importa», dissi seccamente, e lui trasalì. «Tutto ok Peony?», si accigliò, e si mise in piedi. «Sì. Mi aspettano di sotto», ribadii, prima di scappare da quella camera e sbattere la porta. Sentii dell'acqua salire agli occhi, e un forte bruciore nella gola. Il polso era ancora arrossato, e così feci calare il maglione più in basso per coprire quei segni. «Sophie!», mi chiamò ancora mamma. «Arrivo!», avvisai scendendo per le scale di fretta. Giunsi in salotto, dove lo zio Thom e la mamma già erano seduti a tavola. Era apparecchiata, e al centro vi era un bel mazzo di fiori. «Non dovevi», ringraziò mamma, probabilmente perché quello era un suo dono. Lo zio mi volse lo sguardo e gli angoli delle sue labbra si sollevarono appena. «Sophie, sempre più bella», disse cortese. «Zio Thom», salutai freddamente, quell'uomo non mi era mai piaciuto particolarmente. Era ambiguo, citofonava spesso a casa, anche quando non c'era papà. Mi sedetti a tavola, e mamma fece per riempirmi il piatto di minestra. «Non ho fame mamma», dissi, come ormai ogni sera. Lei sollevò lo sguardo al soffitto e poi scosse leggermente il capo. «Mi fai preoccupare.. Perché non mangi?», chiese, tornando sui miei occhi. Distolsi lo sguardo rivolgendolo al basso. Qualcuno citofonò, e colsi l'occasione per evadere dalla situazione. Aprii la porta, e mi gettai tra le braccia di mio papà. «Sophie, tesoro», mi strinse e poi entrò in casa. «C'è lo zio Thom», avvisai e si incupì. Dopo un breve attimo trasalì. «Oh.. Certo. Che bella sorpresa», abbozzò ad un sorriso e ci dirigemmo verso la tavola dopo che si era spogliato dalla giacca. Mi risedetti a tavola. «Dane», salutò Thom. «Fratello.. Non sapevo saresti venuto», disse papà sorridente, prima di sedersi con noi a tavola. «Come è andata la scuola piccola Sophie?», chiese lo zio, dopo aver sorseggiato un po' d'acqua dal bicchiere. «Bene», risposi immediatamente. «Frequenti.. Il primo anno giusto?», chiese lui, errando come sempre. «Il terzo», feci uno striminzito sorriso, non amavo le chiacchiere. «Di già.. Come crescete in fretta», ridacchiò. «Tutti cresciamo», dissi, trovando le sue uscite particolarmente stupide. «Vero. Purtroppo anche noi invecchiamo», considerò prendendo una cucchiaiata di minestra calda. Dai loro piatti fuoriuscivano bianche fumate. Sentii dei rumori al piano di sopra, che richiamarono l'attenzione di tutti i presenti. Soffocai il tutto con della falsa tosse, che rivelò ancor di più la beffa. «D-devo aver lasciato la televisione accesa», balbettai, prima di fuggire verso la mia camera. Quando spalancai la porta vidi Jackson ancora sul mio letto, con un libro in mano. Avrei dovuto scattare una foto, poiché non l'avevo mai visto studiare, né leggere. «È interessante questo libro, Peony», sorrise guardandomi, e poi tornò alle pagine. «Ti avevo chiesto di fare silenzio!», sussurrai rimproverandolo, e lui rise di sottecchi. «Tranquillizzati.» Sbatté una mano accanto a sé sul materasso, come invito a sedermi. Obbedii e sospirai pesantemente. «Domani mattina, di sotto alle sette e quarantasette», disse come quasi ogni sera. «Perché sei sempre così scrupoloso sull'orario?», mi incuriosii. «Prevedo che un minuto lo utilizzerò ad assicurarmi che tu abbia mangiato. L'altro a salutarti come si deve, il terzo a darti fastidio. Gli altri dieci per il tragitto», disse mostrando uno dei suoi affascinanti sorrisi. Tutte le ragazze ne erano innamorate, ma lui non si innamorava mai di nessuna. Era il mio unico amico, il mio migliore amico dalla prima elementare. Nonostante i bei occhi azzurri e i bei capelli biondi non avevo mai ceduto al fascino di Jackson McCall, era quasi come un fratello maggiore, e per lui ero una sorellina. Protettivo (forse troppo), presuntuoso (forse troppo), puttaniere (decisamente troppo). Avevo perso troppo tempo a rimproverarlo così da un po' avevo smesso. Stesa sul letto, mi misi su di un fianco, sfinita da quella giornata traumatica, come tutte le giornate nelle quali incontravo quel mostro che mi obbligava a fare tutto ciò che voleva lui. Avevo chiuso le palpebre già da un po', e pensandoci le strizzai tra di loro. Cacciai i brutti pensieri, e poi sentii il profumo di Jackson farsi più forte. «Peony?», mi fece riaprire le palpebre, dopo aver sussurrato lo stupido soprannome privo di significato che mi aveva affibbiato. «Che c'è?», dissi con voce strozzata, sembrava stessi piangendo. «Perché vedo una lacrima percorrere la tua guancia piena di lenticchie?», sorrise. Jackson tentava sempre di tirarmi su il morale, con le sue stupide battute. «Ho tagliato le cipolle di sotto», richiusi le palpebre e lui ridacchiò. «Le bugie non sono il tuo forte Peony. Da quando hai dei segreti con me?», mormorò, quasi con tono offeso. «Non ho segreti con te Jackson. Ho solo sonno, buonanotte.» Mi dimenticai di aver lasciato in sospeso mia madre, mio padre e lo zio John al piano di sotto, così mi addormentai serena in pochi minuti, finché qualcuno non bussò prepotentemente. «Signorina! Non ci si alza da tavola senza aver toccato cibo e senza dire nulla!», gracidò mia madre, facendomi sussultare. Jackson era sparito. «Scusa mamma, non mi sento bene, va' via per favore..», biascicai. «VA' VIA?», si alterò. Avrei dovuto immaginare. «Ho mal di testa.. Lasciami dormire». «Ne parliamo domani!», gridò prima di allontanarsi. Sospirai sollevata, e sussultai quando sentii un rumore provenire dal basso. «Ahi», gemette Jackson. «Cosa ci fai ancora qui? Mi hai fatto prendere un colpo», mi sporsi dal ciglio del letto, e lo vidi a terra  dolorante. «Mi hai buttato giù poco prima che arrivasse tua madre. Hai dei sensori molto acuti», dichiarò, ed io scoppiai a ridere porgendogli una mano. L'afferrò e si rimise in piedi. «Vado a casa», avvisò, ed io rimasi con la guancia contro al cuscino a fissare i suoi occhi celesti. «Okay», sbadigliai. «Sicura che non vuoi che resti? Sicura sicura? Non provi nemmeno a convincermi?», si risedette, e mi solleticò la vita. Iniziai a contorcermi dalle risate. «Mi sentiranno! Smettila», probabilmente risi sguaiatamente. Sorrise e mi guardò. «Che c'è?», mi accigliai, una volta terminata quella tortura. «Perché piangevi?» «Sto bene, davvero. Ora smettila», cambiai umore, e affondai la testa nel cuscino. Mi baciò la testa. «Okay, non volevo ti infastidissi.» «Non mi sono infastidita..», replicai io. «'Notte. E ricorda, domani alle sette e quarantasette».

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