Capitolo 32

1.6K 104 31
                                    

A tavola ci fu un altro immenso e straziante silenzio. Il rintocco delle posate sui piatti, il vino rosso di mio padre scorrere nel calice di cristallo alle solo due del pomeriggio. Il mio respiro: un affanno fastidioso, inascoltabile persino per me stessa. Questa era senz'altro una delle giornate peggiori della mia vita.

«Magari più tardi, dopo cena... potresti provare a risentire Jackson, non pensi? O magari... magari ti farebbe bene se lo invitassimo a cena... tu che dici, Dan?» esordì mamma.
La guardai. Odiavo l'idea di averla trattata male, così male, solo perché aveva cercato d'essermi d'aiuto.
«Starò bene anche con voi. Non preoccupatevi.»
Papà non disse una parola, continuò a tagliare pezzi dalla sua coscia di pollo senza neppure fermarsi per assaggiarne qualcuno. Era evidente che non avesse fame. Stava solo fingendo di voler mangiare per rendere questo un pranzo più sopportabile.
Nessuno di noi aveva fame. Nessuno di noi riteneva che fosse un pranzo lontanamente sopportabile. Ma apprezzavo i loro gesti, e anche quel silenzio, adesso, assordante come una mitragliata di tuoni, era un suono in cui tutti eravamo avvolti e finalmente condividere quel senso di dolore che mi opprimeva lo stomaco, stava diventando un sollievo. Finalmente, a tratti, lo sentivo dissolversi in pezzetti nell'aria e disperdere massa.

«Ci saremo sempre per te. Sophie. Sei una figlia modello. Non meriti di soffrire. Non permetteremo più che accada...» disse papà. La sua voce era profonda, sull'orlo di un crollo, e la sua gola serrata come una morsa.
«Non è colpa vostra. Non potete proteggermi da tutto. Starò bene.»
«Certo che starai bene, noi faremo in modo che starai bene. Non dovrai più preoccuparti di nulla.»
In quel momento, credetti alle parole di mia madre, mi lasciai rincuorare dal fatto che d'ora in poi tutto sarebbe andato bene. Perché non avevamo più segreti e perché tutto era sotto controllo.
Come se davvero bastasse dirlo per poter controllare lo scorrere di ogni cosa...

«Cosa voleva Jackson, mamma?»
Lei deglutì, poi tornò a fissare il suo piatto, a tagliuzzare pezzi di carne già abbastanza piccoli.
«Voleva sapere come stessi. Gli ho detto che te la stai cavando.»
Poi tirò un sorriso. Delle rughe solcarono le sue guance evidenziando quegli zigomi pronunciati contro cui avevo inveito poco fa allo specchio. Se tutto ciò che il mio viso possedeva l'aveva preso da loro, allora non poteva essere così male.

«Non siete arrabbiati? Perché non ve ne ho parlato fino ad ora?»
Intercorse un istante di silenzio. Poi papà si schiarì la voce e disse: «Non c'è rabbia, Sophie. Non verso di te. Ora tutto si risolverà. Chi ha sbagliato, ne pagherà le conseguenze. Tu supererai tutto questo.»
Sapevo che avrebbero avuto molto altro da dire ma sapevo anche che non l'avrebbero mai fatto davanti a me. E nei giorni a venire, non li avrei trovati così uniti, piuttosto questa sarebbe diventata una ragione di litigio. Sarebbe diventata una ragione per cui controllarmi di più, da parte di mia madre soprattutto, e per togliermi delle libertà.

Poco dopo, il tempo di togliere da tavola il vino e gli ultimi bicchieri, il cielo si era fatto torbido e cupo: non uno spiraglio di luce attraversava le ante delle finestre. Sembrava il riflesso di ciò che stava accadendo dentro di me: sentendo la gola bruciare, il rombo graduale di una cascata d'acqua cominciò ad investire la strada e a colpire i rami flebili degli alberi. Non c'era altro da fare; buttarsi a letto, magari accendendo la tv per lasciarne un ronzio di sottofondo e non sentirsi completamente soli. Poi spegnere la luce ma accendere le lucine di natale appese attorno alla credenza e magari anche la candela sul comò, quella all'odore di vaniglia e cannella. Illudersi che rinchiudersi in un atmosfera piacevole possa recarti sollievo o quantomeno un briciolo di soddisfazione, ordine mentale.

Avevo sottovalutato il freddo che faceva, però, così sotto le coperte tremavo, comunque incapace di trovare la voglia di alzarmi e afferrare il maglione dallo schienale di quella sedia. Era a un paio di metri, forse, non di più. Il mio corpo era interamente triste, troppo abbattuto per compiere anche solo un passo. Fissai un punto sfocato in mezzo al nulla per minuti, forse addirittura ore. Non riuscii a calibrare il tempo. Sapevo solo che probabilmente, tra poco, uno dei miei genitori avrebbe fatto il té. Forse non papà, che quando era angosciato faceva fatica a scollarsi dal divano e dai documentari di storia. Forse mamma, che quando si sentiva così non vedeva l'ora di dover usare le mani per fare qualcosa.

UNEXPECTEDDove le storie prendono vita. Scoprilo ora