L'adrenalina nelle vene, il brivido della caccia, seguire le tracce, trovare la preda, stanarla come una volpe nella sua tana, non esisteva emozione migliore per Sherlock Holmes.
O, meglio, una ce n'era.
Indagare con John Watson.
Il medico era per lui un'infinita fonte di stupore. Sherlock Holmes credeva di aver capito tutto della natura umana.
Poi nella sua vita era comparsa una testolina bionda alta un metro e una caramella al limone e, ovviamente, aveva incasinato una vita di calcoli e statistiche.
John Watson era per il detective un'infinita fonte di curiosità. Lui rideva nei momenti più impensati, era paziente, ma poteva diventare pericoloso quando si arrabbiava veramente, cosa che accadeva raramente.
Era forte. Aveva affrontato la sua morte con coraggio, non si era lasciato andare. Sherlock dubitava che in molti ci sarebbero riusciti.
Ed era compassionevole. L'aveva perdonato nonostante tutta la sofferenza che gli aveva causato.Ed era bello.
Sherlock aveva iniziato a notarlo nell'ultimo periodo. Vivendo in un mondo di osservazioni oggettive aveva prestato poca attenzione ai canoni di bellezza tradizionali, ma per lui John Watson era bello. Non solo esteriormente, nonostante il suo corpo, temprato dal servizio militare, non passasse certo inosservato, John era di un'altro tipo di bellezza. Una bellezza rara al mondo. Una bellezza che riguardava l'animo. Quando Sherlock gurdava John tutto ciò che vedeva era luce, che fosse felice, triste, arrabbiato, desideroso, stanco... lui illuminava una stanza con la sua semplice presenza.
Spesso si era ritrovato a fissarlo, senza motivo, col cuore che accellerava nel petto, la bocca che si seccava e lo stomaco che pareva percorrere le montagne russe.
"Cosa c'è? "
"Niente... pensavo"
E il discorso si concludeva lì. Jonh non evidenziava il fatto che fosse strano essere fissati da qualcuno.
Per John non era strano.
Per il mondo era sempre stato un Freak, uno scherzo del destino, ma per John no.
Fin dal primo momento l'aveva ammirato, esprimendo il suo stupore in ogni possibile variante della lingua inglese.
E a Sherlock questo piaceva.
Per questo se lo scarrozzava da una parte all'altra di Londra, cercando di risolvere casi sempre più complessi.
Poco importava che John avesse una famiglia sua ormai.Ma quella volta Sherlock desiderò di non averlo fatto. Desiderò con tutto sé stesso che il medico avesse un'altro impegno, fosse anche andare a fare la spesa.
Perché, quando il proiettile partì dalla pistola nelle mani dell'assassino e andò a piantarsi nell'addome di John, furono le mani del detective a sporcarsi di sangue.
Raggiunse l'amico con un urlo piantato in gola, fastidioso come una pietra, i muscoli che pulsavano per lo sforzo di contrastare la sua volontà di avvicinarglisi.
Lo prese tra le braccia, delicatamente, e si posò la testa in grembo, come aveva desiderato per un secolo, senza mai poter sperare di farlo.
"John, John mi senti? Resta con me John, ti prego..."
Ma John non lo sentiva. Con le poche forze rimastigli guardò il detective negli occhi e sorrise.
Poi la sua luce, quella che per mesi aveva illuminato la vita di Sherlock, si spense.
E non s'accorse di star piangendo nemmeno quando i singhiozzi non gli permisero di respirare. Non si accorse delle mani di Lestrade nemmeno quando questi lo strappò a forza dal corpo esanime di John.
Non si accorse di essere arrivato a casa nemmeno quando si ritovò seduto sulla sua poltrona.
Non si accorse del tempo che passava.
Ma quello, infame, passava eccome. E portava con sé dolore, sofferenza.Ed, infine, non si accorse di star urlando nemmeno quando la gola cominciò a dolergli come se avesse un ferro incandescente.
Iniziò così, per caso, dopo 3 giorni 15 ore 28 minuti e 19 secondi di mutismo iniziò a urlare, dapprima piano, poiché le sue corde vocali non erano più abituate al produrre suono, ma poi sempre più forte, un urlo che esprimeva tutta la disperazione, tutto il dolore di una perdita che, Sherlock lo sapeva, non avrebbe mai superato.E poi non parlò più. Passavano i giorni, la signora Hudson spolverava un po' e gli passava una mano nei riccioli, prima di scomparire con un sospiro. Mycroft si fermava sull'uscio, osservava il fratello, sospirava, ma non diceva nulla, non sorrideva, non ghignava. Perché lui sapeva. Sapeva esattamente cosa stesse provando il minore, e sapeva di non poterci fare nulla. E sperava che il tempo, un padre infame e crudele, potesse aiutarlo.
Poi batteva l'ombrello a terra e se ne andava.Arrivò anche Mary. Mary che dapprima urlò anche lei, scaricando la colpa su Sherlock, cercando di ferirlo più di quanto fosse lei, ma poi iniziò a piangere, senza una parola, solo un pianto sommesso che parlava di dolore, di sfogo. Ma anche lei se ne andò.
Quello che lei non sapeva, però, era che il suo sfogo era praticamente inutile.
Anche se Sherlock non parlava, la sua mente correva come un treno, percorrendo binari sempre più oscuri, percorsi sempre più tortuosi. E non sapeva che Sherlock la colpa se l'addossava tutta. In quei rari momenti di sonno che si concedeva il Moriarty all'interno della sua mente urlava e imprecava contro di lui.
Persino John, che non si arrabbiava mai, né quando sbagliava, né quando era nel giusto, che pazientemente gli spiegava perché quella donna era andata via piangendo dopo che le aveva rivelato l'infedeltà del marito, anche lui imprecava.
Avrebbe potuto salvarlo, avrebbe potuto evitarlo. Diavolo lui era Sherlock Holmes, il grande detective! La parola impossibile non esisteva nel suo vocabolario!
Ma evidentemente a lui non importava. La cattura di un serial killer veniva prima dell'incolumità del proprio migliore amico.Sherlock Holmes aveva imparato che nella vita non bisogna mai affezionarsi a qualcuno. Finisce solo che ci tieni troppo. E più ci tieni, più fa male quando questi se ne va.
Sherlock Holmes aveva trasgredito a questa regola due volte nella sua vita.
La prima con Barbarossa.
La seconda con John.
E se aveva pensato che la prima perdita fosse stata dolorosa, questa era cento volte tanto. Era straziante, annullante, non guardava in faccia nessuno, non aveva pietà.
Era la pura definizione del dolore, e non era fisico, e faceva più male.
Faceva un male cane.L'unica volta che si alzò da quella poltrona -non si muoveva neanche per mangiare, era la signora Hudson che, pian piano, lo imboccava, pochi bocconi di cibo, prima che l'uomo voltasse la testa come un bambino- fu per farsi un bagno.
Aprì l'acqua, la riscaldò, si spogliò e vi si immerse.
Due lampi di dolore lo attraversarono, ma furono presto soffocati dall'acqua.
Poi aspettò.Fu Mycroft a trovarlo.
Era andato a trovare il fratello, per la prima volta dopo un mese, e aveva chiesto alla signora Hudson di accompagnarlo. Si aspettava, ovviamente, di ritrovare il moro seduro sulla poltrona in stato catatonico, ma quando non fu così il cuore gli arrivò in gola.
Tese l'orecchio e sentì un lieve rumore di acqua. Corse verso il bagno, spalancò la porta e lo trovò. Immerso nella vasca da bagno piena d'acqua.
Rossa come il sangue.Si svegliò qualche ora dopo. Era nel suo letto, -Mycroft aveva categoricamente escluso l'idea di portarlo in ospedale, avrebbe ricevuto le cure necessarie a casa- i polsi fasciati e un fastidioso prurito al gomito destro che segnalava l'ago di una flebo.
Cercò di alzarsi ma una mano sul petto glielo impedì.
"No, no, no caro, non puoi alzarti" la voce della signora Hudson, stranamente, suonava quasi come un balsamo per delle orecchie abituate al silenzio e alle urla.
"Ma, cosa, cosa, cosa ti è saltato in mente, stupido! Farti del male così! Cosa direbbe John?"
E fu a quelle parole che il detective, finalmente, crollò.
Pianse, pianse, pianse per ore, con la signora Hudson affianco che gli carezzava i capelli e gli asciugava le lacrime.
"Povero Sherlock, quanto dolore. Ma imparerai a conviverci, credimi. Il dolore è come una seconda pelle, si attacca a te e non se ne va mai via, ma può essere positivo. Se soffri vuol dire che ne valeva la pena, non credi? Lo so che ora è tutto buio, ma piano piano troverai la tua luce, te lo prometto.
Devi toccare il fondo per poi risalire."
Ed era vero. Pian piano le cose migliorarono.
Riprese a mangiare, a dormire, a parlare con la signora Hudson, prima per monosillabi, come un bambino.
E come un bambino imparò a vivere.
"Sai caro, quando credevamo che tu fossi morto è stato un periodaccio per John, io lo vedevo. Lui non se ne accorgeva ma, ogni tanto, quando credeva che non lo vedessi, poggiava una mano qui, proprio sul cuore. A volte piangeva, altre sussurrava. Una volta disse "ti amavo idiota".
Il dolore che provava era immenso, ma aveva imparato a conviverci, era forte. E devi esserlo anche tu, glielo devi Sherlock. Promettimi che sarai forte."
E lui lo fece.
Riprese a indagare, a svolgere la vita di ogni giorno.
C'erano momenti in cui il dolore tornava, più forte di prima, ma guardando le cicatrici sui suoi polsi ricordava la promessa fatta alla signora Hudson, e a John.What would you do if i die today?
I'd die tomorrow.Angolo autrice.
Stavolta non me la sento di scrivere un granché. Voglio solo scusarmi con voi, se avete pianto, come sto piangendo io mentre scrivo.
Mi sentivo in vena di Angst e mi dispiace aver dovuto usare una coppia così bella come la Johnlock.Passando alle cose più leggere, vorrei iniziare una raccolta, come la grelliam e la malec. Che ne pensate?
Fatemelo sapere nei commenti :)
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What If I Die Today?//Johnlock
Romance[Johnlock| Post-Raichenbach| Angst| Trigger warning] "Cosa faresti se morissi oggi?" "Morirei domani" 《Sherlock Holmes aveva imparato che non bisogna mai, per nessun motivo, affezionarsi a qualcuno. Finisce solo che ci tieni troppo e, più ci tieni...