Capitolo 1

27.3K 708 154
                                    

Giugno 2014

Salutare il Montana e le mie abitudini non è stato facile. L'Italia è davvero diversa, non sembra nemmeno che sia nello stesso pianeta del mio stato natale. Le persone che vanno in giro a cavallo sono più uniche che rare, probabilmente la maggior parte non sa nemmeno cavalcare. Gli italiani preferiscono le auto, e più lussuose e appariscenti sono meglio è. Sembrano tutti così superficiali e dipendenti dal denaro.

Butto la legna in una cassa, il rumore dei tronchetti che sbattono appartiene alla mia infanzia, mi fa quasi sentire a casa.

Lose Yourself di Eminem pompa nelle cuffie stereo che tengo al collo, mantengo il volume alto così posso sentire la musica senza indossarle. Il sole mi batte sulle spalle nude imperlate da piccole gocce di sudore scottandomi la pelle. Fa caldo.

"Dylan!" la voce materna di mia madre cerca udienza. Mi sollevo e la trovo davanti a me. La pelle abbronzata, i capelli neri e gli occhi grandi dello stesso colore, sempre lucidi. Una bellezza mediterranea.

Mi guarda dal basso con il suo metro e sessanta. "Tranquillo amore, non serve che lavori. Rilassati." dice posandomi una mano sulla guancia. Lo farei anche, solo che io, fermo, non ci so stare.

Annuisco sistemandomi il capello da cowboy, sicuro che tra meno di un quarto d'ora la mia testa troverà altri lavori da fare, definendoli già urgenti. Lei sorride mostrando i piccoli denti bianchi.

"Tra poco si mangia bambino mio." detto questo si gira e torna in casa.

Amo il suo modo di parlarmi, nonostante io sia ormai grande per un tale affetto, lei non ha mai smesso, e penso mai smetterà di parlarmi in questa sdolcinata maniera.

Nonostante lei si trovi bene qui, io sento di non appartenere a questo posto. Non posso fingere di essere a Casa. Basta alzare gli occhi per riconoscere con tristezza un luogo estremamente diverso. La durezza di queste montagne aguzze e accattivanti, non ha nulla a che vedere con quelle che circondano Livingston, tondeggianti e in estate splendidamente verdi e piene di vita.

Scuoto il capo scappando da quelle riflessioni, portano soltanto nostalgia.

Batto le mani sui jeans cercando di liberarmi da quanta più polvere possibile, stringo la camicia attorno ai fianchi e raccolgo la cassa incamminandomi verso l'ingresso di quella residenza che non sento mia.

La casa Mair ha due piani, le pareti sono giallo canarino e fiori di diversi colori spiccano alla base delle finestre non abbandonandole fino all'arrivo delle stagioni fredde. Questa tenuta era di mio nonno, Bruno Mair, padre di mia madre, Gaia Mair, nonché uno dei migliori uomini incontrati nella mia vita. Un gran lavoratore, un onesto e un genuino. Il vecchio ha lasciato tutto a me, il suo unico nipote.

Con il pensiero del suo sorriso anziano e i suoi buffi lunghi baffi sorrido mentre salgo le scale in pietra bianca e apro la porta in legno scuro.

***

Agosto 2014

La città. Ho vissuto qui per tre anni all'età di dieci e ora sono qui, di nuovo, da circa tre mesi, ma le cose non cambiano, continuo ad odiare le città. Il trambusto delle vite che le abitano non riescono a farmi sentire a mio agio. Il rumore degli altri mi innervosisce.

Sbatto la portiera del fierissimo Pick – Up Ford 4x4 del 1968, meraviglioso nel suo azzurro metallizzato, pronto ad immergermi nel flusso di persone che cammina sui marciapiedi. Una volta immesso nel traffico pedonale mi sincronizzo alla camminata lenta e pigra degli altri osservando Padova. Pur non essendo una città troppo grande e affollata, comunque trovo il centro urbano troppo caotico. Ammetto di essere tragico, è mercoledì mattina non cè tutta questa gente in giro, molte persone sono qui per fare commesse, quindi tanto di fretta quanto me probabilmente, eppure mi sembrano tutti così lenti ed agiati.

In ogni caso, da Padova me ne vado presto, giusto il tempo dell'università, poi ritorno in Montana.

Quando il semaforo diventa verde mi affretto prima che riscatti il rosso, dall'altra parte una piccola folla si mette in movimento per cogliere la mia stessa occasione, attraversando la strada velocemente. Mi faccio largo tra le stesse e un puzzo raggiunge il mio naso, si qualcuna o più di una puzza come le capre. Lo stress dico io. Storco il naso. L'uomo assomiglia tanto agli animali eppure continua a considerarli inferiori.

La testa comincia a girarmi quando un team di lavoro mi attraversa il cammino, non sembra nemmeno che mi vedano, qualcuno mi colpisce leggermente con la spalla. Maledetta gente, maledetta città. Accelero il passo, l'aria satura di smog mi brucia le narici, i miei occhi viaggiano qua e là non sapendo più dove guardare per evitare di sbattere contro qualcuno o qualcosa. Ma quanti diavolaccio sono?

Sbam. Appunto.

Ho abbattuto qualcuno, ora giace ai miei piedi, scalcia, urla e si lamenta. Vedo solo un abito rosa confetto svolazzare di qua e di là, attorno ad un paio di borse colorate sfoggianti marche che non mi sono del tutto nuove.

Mi scuso, mi chino e tendo una mano.

La donna rifiuta categoricamente il mio aiuto, si alza e mi punta gli occhi addosso. Verdi smeraldo. Quello che vedo non ha nulla a che fare con il gruppo di prima.

"Ma guardi dove cammini? Rincitrullito! Guarda che casino!" ha una voce splendida, lieve e bassa, neppure con tutta quella rabbia nasconde la melodia di quel suono.

La guardo e rimango zitto. Qualche persona ci passa accanto, camminando tranquillamente sul marciapiede, ma io vedo solo lei. Ha le gambe snelle, lisce e bianche, dovrebbe essere un reato portarsele in giro non permettendo a nessuno di toccarle. I piedi sono piccoli e la scarpa col tacco lascia vedere l'unghia del perfetto alluce smaltata di rosso. È meravigliosa.

"Oh, ma ci senti? Ceco, muto e poi cos'altro? Ehi? Energumeno?" richiama la mia attenzione la ragazza confetto.

Scuoto il capo come per liberarmi dai pensieri e dalla demenza mentale - gambe, belle, gnam - momentanea.

"Oilà! Guarda che i miei occhi sono più sù!" mi avverte buttando più volte l'indice in su per intimarmi di guardarla in volto. Lo faccio, ma molto lentamente, la scannerizzo. Le sue curve sono molto fini, nulla eccede è tutto sinuoso. Il seno. Oh, piccolo e sicuramente sodo.

Il paradiso mi scappa sotto gli occhi, la ragazza si è accucciata.

"No, cavolo, non ci credo." dice dispiaciuta, tra le mani ha dei pezzi di vetro. "Si è rotta la boccetta. Era il mio profumo preferito." sussurra con tristezza e io mi riscuoto.

Mi chino e l'aiuto a sistemare le borse. "Merda, non volevo."

Quello che era in una delle buste che giacciono a terra è tutto perso per sempre su questo marciapiede. "Mi dispiace moltissimo, mi permetta di rimborsarla."

Lei si gira verso di me. "Era proprio l'ultimo, questa fragranza è andata a ruba. – alza le spalle – Lo sai? Mi hai appena dato un motivo per odiarti." Sorride, ma so che non mente.

Ci alziamo insieme e le porgo una busta di carta con stampato sulle due facciate un logo. Coin. Nulla di rotto qui, sembrano solo abiti. Lei la afferra e comincia subito ad allontanarsi. In ultima battuta si gira urlandomi: "Ciao energumeno! Ricorda: mi devi una boccetta di profumo!"

La vedo andare via, i capelli mori al vento e il vestitino svolazzante che mi fa venir voglia di rincorrerla solo per abbassarglielo per coprirle meglio quelle gambe peccaminose.

In fine sparisce così, comè comparsa.

****Spero vi piaccia.

Grazie a tutti in ogni caso.***

Mille ragioni per odiartiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora