VI - Luce

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- Sono passati undici mesi, ormai...

Una lama di luce si abbatté sulla coltre di oscurità che mi separava dal mondo.

Ecco, nonostante tutti i film mentali che mi ero fatta negli ultimi mesi di buio... beh, evidentemente non ero morta.

E qui occorre specificare il concetto di "morto": secondo il dizionario, "colui che ha cessato di vivere".

Ah, molto utile.

Ora, visto che "vivo" significa "colui che vive", suppongo di dovermi arrangiare da sola.

Il mio cuore batteva.
Ero in grado di pensare.
E, anche se tutte le attività quotidiane, a partire dal respirare autonomamente e dall'aprire gli occhi, mi erano precluse... ero viva, almeno teoricamente.

La voce di Meg suonava preoccupata.

- Non ci sono segni di miglioramento. Né parenti che possano prendere decisioni, perciò... conosci la procedura, ragazzo?

"Ragazzo."

Quindi Meg non stava parlando con un altro dottore.
E conoscevo un solo ragazzo con una faccia tosta tale da presentarsi in un reparto riservato...

- Io... credo di sì.

Era Jackson.

- Ma non posso permetter... non potete farlo.

Cominciò a battere i pugni contro quella che probabilmente era la porta della mia stanza.

- Fammi entrare. Solo per un minuto.

Meg sospirò.

- Se ti beccassero... sarei licenziata.

- Ti prego. Non mi farò beccare. Ma devo andare da lei.

Riuscivo quasi ad immaginarmi il ragazzo che le faceva gli occhi dolci.
E l'infermiera aveva il cuore tenero.

La porta si aprì di scatto, ma Jackson - continuavo a non ricordare il suo nome, né dove l'avessi conosciuto - non entrò.

Rimase fermo sull'uscio a guardarmi, sentivo la profondità dei suoi occhi verdi che mi attraversava come fossi fatta d'acqua.

Mi stupii di me stessa.
Come potevo conoscere il colore dei suoi occhi?

Sentii un brivido lungo la schiena, il primo stimolo che riusciva a raggiungere il mio corpo dopo mesi di buio e vuoto.

Un dolore bruciante mi lacerava la parte bassa del busto, un dolore fisico che non ricordavo potesse essere così forte.

Il ragazzo fece un paio di passi verso di me, quasi esitante.
Si avvicinò al mio letto, vi avvicinò una sedia e si sedette.

Restò a lungo in silenzio, poi, all'improvviso, mi afferrò la mano.

E io percepii la sua stretta, le pulsazioni quasi impercettibili delle sue dita sulla mia pelle.

- Annabeth...

La sua voce s'insinuò nella mia mente, smosse le fragili pareti dell'oblio e dei ricordi.

- É buffo rivederci così, sai, Annabeth? Insomma, dopo quasi due anni, ecco che rispunti in un ospedale di Boston, lo stesso ospedale in cui... beh, ecco... in cui è ricoverato anche un... mio... amico. Ci siamo parlati per dieci minuti in un bar, eppure ti ho riconosciuta subito. Mi sei rimasta impressa, tanto che non ho dimenticato il tuo viso neanche dopo tutto questo tempo.

Jackson tossì debolmente un paio di volte e allentò la stretta sulla mia mano.

Perdere quel contatto mi fece male.

- E ora... beh, credo che sia stato il Destino a farci reincontrare, ma a quanto pare sei troppo testarda per seguire il volere del fato, altrimenti ti saresti svegliata da un pezzo.

Sbuffò, ma non sembrava arrabbiato.
Solo... terribilmente triste.

- Mi piacerebbe conoscerti meglio... di te so solo ciò che mi hai detto due anni fa, in quello Starbucks mezzo vuoto. Ed è un po' poco, non credi?

"Percy."

Il suo nome mi balenò in testa con la potenza di un fulmine.

Quelle cinque, semplici, stupide lettere strapparono il velo di oscurità che mi teneva inchiodata nella mia non-vita, in quello stato di coma, di torpore mortale dal quale non potevo riscuotermi.

Fino a quel momento.

- Beh, Annabeth. Credo che sarebbe saggio se decidessi di aprire gli occhi, o anche semplicemente di muovere un dito. Sai, come nei film.

Avrei voluto sorridere.

In un attimo mi era tornata in mente quella nebbiosa giornata invernale, una tazza di cappuccino alla cannella, un barista squilibrato e un nome sbagliato.
Ricordavo il volto di Percy Jackson come se l'avessi appena visto, la profondità dei suoi occhi verdi era perfettamente viva nei miei ricordi.

Lui si alzò e allontanò la sedia dal letto con un fastidioso scricchiolio contro il pavimento.

Lasciò andare la mia mano, ma avvicinò il volto al mio.

Sentivo il suo profumo di mare, di sole, d'estate... anche nel pieno dell'autunno.

Accostò le labbra al mio orecchio.

- Svegliati, Annabeth, ti prego. Credo di aver bisogno di te.

Percy sospirò e fece per andarsene, ma io non potevo permetterlo.

Non potevo lasciarlo andare via.

Non dopo essere riuscito a svegliare il mio corpo.

Intimai al mio cervello di prendere la sua decisone.

In fretta.

Vivere.

O morire.

Poi, quasi fosse la scena di un film...

serrai le dita intorno al suo polso.

Teach me to live againWhere stories live. Discover now