Appunti sulla violenza

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«Affinché Lei possa capire, dovrò raccontarLe tutta la storia. La informo che sarà abbastanza lunga. Dunque, avevo trentatré anni quando incontrai Agnese. Lei ne aveva dieci in meno di me. Non vorrei ulteriormente annoiarla, quindi le risparmio i dettagli, di come e quando ci conoscemmo; ciò che è importante è che ci mettemmo insieme. Molti miei amici dicevano che Agnese era la ragazza più bella di tutto il paese. Un metro e settanta circa, portava sempre delle camicie scozzesi colorate, aveva un corpo molto sensuale, due grossi seni e degli occhi azzurri e limpidi come il mare. I capelli biondi, lunghi fino al culo e come di seta, erano sempre appuntati da due forcine di plastica colorata.
Agnese studiava lettere, scriveva saltuariamente per un giornale di cui non ricordo nemmeno il nome ed amava cimentarsi nella lettura di romanzi e poesie. Gli scaffali della sua libreria erano pieni zeppi di libri di famosi autori: Austen, Orwell, Tolstoj, Kafka, Dickens. C'erano anche Hemingway e S. King. Ma quello che più amava era senza dubbio Dostoevskij e le "Memorie dal sottosuolo". Quel romanzo l'aveva letto e riletto. La frase che più le stava a cuore di quel libro l'aveva evidenziata a matita:

"L'amore! Ma l'amore è tutto, è un diamante, è il tesoro di una fanciulla! Per meritare questo amore c'è chi è pronto a buttar via l'anima, ad affrontare la morte."

Tornando a noi. Agnese si mostrava disinvolta, aveva una mentalità aperta. Mi baciava in pubblico, e lo faceva così bene da togliermi il fiato. Dopo tre mesi la situazione cambiò. Un pomeriggio invernale, per esempio, si fece mettere una mano nelle mutandine, a patto che non le infilassi il dito nella fica. Tentai, seppur vanamente, di farla eccitare massaggiando lì in mezzo. Frattanto lei mi toccava il cavallo dei pantaloni e sentiva la mia crescente erezione. Che bella sensazione. I primi tempi ci divertivamo come matti. Spesso nei week-end (frequentava l'università, quindi potevamo vederci soltanto il sabato e la domenica) andavamo in un pub ad un chilometro da casa mia. Mangiavamo un hot-dog a testa, delle patatine fritte e bevevamo una lattina di gassosa a testa. Quando terminavamo di mangiare, di solito passeggiavamo in piazza, tenendoci per mano. Alle undici però dovevo accompagnarla a casa. Il ricordo più nitido che ho di quelle serate è quando, dopo essere arrivati fin sotto casa sua, approfittando dell'assenza dei genitori, salimmo in camera. Feci per accendere la luce ma lei mi bloccò di colpo, si tolse l'intimo e mi infilò il guanto sull'uccello. Mentre lo facevamo, non distolse neppure per un secondo gli occhi da me. Spingevo veloce, sprofondando dentro di lei. Frattanto, lei si lasciò sfuggire un gemito sonoro, gutturale. Quando finimmo di fare l'amore, fu lei a disfarmi del profilattico dal pene.

Quella fu la nostra prima volta.

Frequentai Agnese a lungo, prima di metter su famiglia. Il nostro rapporto migliorava giorno dopo giorno. Durante le vacanze natalizie, Agnese mi invitò a passare un sabato a casa dai suoi. A suo padre stavo sul cazzo. Mi odiava davvero. Non perdeva occasione per trattarmi come se fossi un imbecille. Credeva - non so nemmeno io perché - che stessi dietro ai suoi soldi. Era grasso, aveva degli occhi piccoli piccoli e marroni ed un naso grosso. La sue labbra carnose spuntavano sotto quei baffi folti e neri. La mamma, invece, era più calma. Almeno nei miei confronti. Doveva avere ad occhio e croce cinquant'anni, come il marito. Non somigliava per niente ad Agnese. Era una donna grande e grossa, aveva i capelli corti come un maschiaccio, la faccia piccola e pallida e le sopracciglia spesse. Insieme a loro viveva anche il nonno. Il signor Antonio. Dio, se puzzava! Aveva addosso sempre gli stessi vestiti maleodoranti e nessuno dei familiari se ne fotteva. Poi aveva un alito mortifero, forse perché beveva come un dannato. Ascoltava musica classica e nel frattempo tracannava uno, due, tre bicchieroni pieni fino all'orlo di whisky in poco più di mezz'ora. Spesso al nonnetto lo si sentiva sbraitare. Lo volevano chiudere in una casa di riposo. Ne aveva bisogno, dicevano. Non ho mai capito a cosa si riferissero. La verità è che il signor Antonio era soltanto stufo di tutto, del tran-tran, di vivere per vivere.

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