1. Polvere e diari

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Vivere per conto mio era sempre stato il mio sogno.
Fin da bambino avevo sempre voluto avere un appartamento tutto per me.
Ma non avrei mai immaginato di andare a vivere in una villa a soli ventisette anni.

I miei genitori erano morti, e l'unico parente che avevo era uno zio di mia madre, di nome Andrew. Era un uomo abbastanza ricco, di quelli che hanno più di una casa.
E in effetti era così: avevo vissuto per diciannove anni in una casa talmente piccola, in sua compagnia, che non avrei mai immaginato avesse una villa di quelle dimensione. Si ergeva davanti a me, fiera, e dovevo inclinare il collo per vederla tutta. Un portone in ferro era la prima cosa che poteva essere notata. Un giardino dalle enormi dimensioni circondavano l'enorme abitazione.
E adesso che anche mio zio Andrew era morto, la villa restava a me.

«Ehm...signore?» il tassista che mi aveva portato lì sporse il collo fuori dalla macchina, «posso andare?»

«Sì» risposi, pagandogli il viaggio.

Eravamo vicino Londra, e da lì potevano scorgersi vari edifici della città. Il tassista, mi pare si chiami Alex, mise in moto la macchina e partì.

Io restai un po' lì, indeciso sul da farsi, e poi mi avvicinai alla porta. La chiave entrò nella porta con qualche difficoltà, e una volta aperta, uno scricchiolio fastidioso mi fece capire che la villa aveva tantissimi anni alle spalle.
L'ingresso era quasi dieci volte più grande della mia vecchia casa. C'erano due rampe di scale, ai lati, che curvavano dolcemente verso l'alto. Un tavolo dalle modeste dimensioni, al centro, era ricoperto da un telo bianco. E così tutti i mobili: ogni armadio, ogni soprammobile erano coperti da un telo bianco. Posai le due valigie davanti la porta, e corsi verso le scale sulla sinistra. Salii, ritrovandomi porte e mobili ovunque. Quella villa era esageratamente enorme.
Tantissimi dipinti coperti stavano sulle pareti rosse da chissà quanto tempo, tende esageratamente sporche coprivano varie finestre. Ci sarei stato anni solo per pulire. E tantissimi altri per abituarmi a quella solitudine.

La sala da pranzo non era messa meglio. Un enorme tavolo sembrava fatto di polvere, un camino aveva bisogno di essere sistemato.

Quello che mi preoccupavano erano però i costi. Stare in quella villa mi sarebbe costato un polmone, e i soldi dello zio e il mio lavoro non erano abbastanza. Ma decisi di non pensarci molto, mentre controllavo quasi tutte le stanze e provavo ad evitare di starnutire per la polvere.
Entrai in quello che sembrava uno studio. Era la stanza mantenuta meglio. Sulla destra, però, su una libreria piena zeppa di libri sembrava fosse passato un tornado. Mi avvicinai ad essa e osservai i vari libri. C'erano moltissimi libri di poesia e altrettanti classici. Dopo avrei sicuramente preso qualcosa.

Un diario nero attirò la mia attenzione. Era messo tra due libri dalle copertine rovinate. Lo presi e per un attimo mi sembrò di essere osservato, mi girai e storsi il naso. Non ci feci molto caso, e abbassando nuovamente gli occhi vidi le due lettere incise sul diario.

H.S.

Rimasi perplesso. Quello aveva tutta l'aria di essere un diario personale, di quelli che si scrivono a fine giornata. Ma perché mio zio aveva un diario del genere? Il suo nome era Andrew Styles, e non poteva essere suo.
Poi ripensai alla villa, e capii che doveva essere di un qualche vecchio parente ormai morto e sepolto.
Però, quel diario emanava qualcosa di veramente tanto inquietante. D'altronde, se avessi visto fantasmi, il proprietario di quel piccolo diario me ne avrebbe dette di tutti i colori.

Senza pensarci, però, uscii dalla stanza con quello in mano.

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Quella stessa sera, il camino scoppiettava dolcemente. Un buon profumo invadeva tutta la sala da pranzo. La villa, seppur ancora messa male, era più o meno abitabile. Lo studio era probabilmente la stanza più curata, insieme a uno dei bagni, la camera padronale e la sala da pranzo.
Non avevo fatto lavori di alcun genere, ma mi ero limitato a sistemare e pulire, essendo solo il primo giorno.
Fortunatamente non ero solo.

«Ehi, Louis» qualcuno entrò nella sala da pranzo.

Sorrisi e alzai una mano, mentre mi gustavo il pollo. «Liam!»

«Per oggi ho finito. Ho sistemato del tutto lo studio e gli altri sono andati via» disse.

«Resti a cena?» chiesi, anche se ormai avevo quasi finito. Il che non era proprio educato.

«No, tranquillo, Karen mi aspetta».

«Okay!» sorrisi al mio migliore amico, che sgusciò fuori dalla stanza.

Posai le posate e, senza sparecchiare, mi diressi verso il divano posizionato davanti il camino.
La tentazione di leggere quel diario che avevo trovato nello studio era tanta, così lo presi, aprii la prima pagina e osservai la sottile grafia.

Non c'erano date, né altro. Semplicemente, chiunque fosse stato questo H.S non sapeva scrivere ad un diario.

"Oggi sono passati.
Mi stanno cercando.
Non voglio andare in un campo di concentramento."

Lessi quelle parole piano, quasi impaurito dal contenuto. H.S doveva essere vissuto nel periodo di Hitler, e magari era anche nero.

Mi alzai e mi diressi nella camera padronale. Mi infilai sotto le coperte e mi rigirai per qualche ora.
Una brutta sensazione non riusciva andare via. Mi sentito osservato, e non potevo fare a meno di far vagare lo sguardo di qua e di là.

Poi vidi un paio di occhi verdi che mi scrutavano da un angolo.


Curly Ghost | LarryDove le storie prendono vita. Scoprilo ora