cap. 1

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La palestra puzzava di allenamento. Puzzava di sudore e parolacce, plastica e tiri sbagliati. Puzzava di speranze deluse, di sogni infranti, di famiglie spaccate, scheletri nell'armadio, ferite inferte da una vita stronza. Regnava il rumore delle scarpe, che si buttavano senza pietà contro il pavimento ed urlavano, strillavano come delle vecchie prese per il collo, come dei segreti mai rivelati in un cassetto. Il canestro stava lì in alto, colla sua bella rete, col suo tabellone. Era sporco di polvere che si alzava nell'aria assieme al pulviscolo ogni volta che qualche giocatore ci si appendeva con tutto il suo peso. Polvere di sogni, polvere di mondo. Polvere del suo mondo, piccolo mondo sporco. Ogni volta gli entrava nei polmoni e gli ricordava che lì tutte le convenzioni che tanto odiava non valevano più un cazzo. Tutti sono uguali, quando si entra in campo. Tutti figli dello stesso Dio, tutti ragazzi luridi di pubertà e affamati di gloria. Non contano più i tuoi soldi, le tue scarpe, le tue casacche costose. Ma il campo non è un sistema comunista, quello no. Il campo, al contrario, è un capitalista sfruttatore. Ti fa sgobbare se sei povero, ti sputa in faccia se non hai talento e ti schiavizza... mentre dona le ali del privilegio a chi ha il dono del canestro e ti fa volare, volare, volare...

E Will amava quell'atmosfera, perché lui aveva i numeri. Glielo dicevano tutti e glielo ripetevano continuamente. Will sapeva che ogni goccia di sudore gli avrebbe portato un risultato. Lo sapeva fin troppo bene, e per quello si presentava sempre un'ora prima dell'allenamento. Si infilava in spogliatoio mentre la squadra che si allenava prima di loro correva e faticava in campo. Si sedeva in fondo a quella stanza fottutamente fredda e stava lì per mezz'ora. In silenzio, per concentrarsi. Finché il culo non gli diventava ghiacciato. A quel punto si alzava, si cambiava velocemente, nascondeva Will studente nel borsone e indossava Will guerriero. Quello con gli insulti tra i denti, insulti che non erano mai rivolti a nessuno tranne che a se stesso. Quello capace di dare tutto al massimo, duecento all'ora per tutto il tempo sia di una partita sia di un allenamento.

A quel punto, cambiatosi di identità, cominciava il suo allenamento vero e proprio. Si sedeva sulle tribune e studiava la sua grande nemica. La palla? No, la palla non era sua nemica. Era uno strumento per colpire, affondare e vincere. La sua vera avversaria era la forza di gravità. Quella maledetta lo teneva legato al pavimento rigato dalle Air Max e lo frenava in tutti i suoi salti con delle redini invisibili. Perciò, seduto sulle tribune, osservava le parabole dei palloni e faceva l'unica cosa che si potesse fare per avere un vantaggio: studiare e prevedere. Sì, perché l'unica pecca della sua rivale era la costanza e la ripetitività. Era prevedibile, calcolabile, non cambiava mai le sue leggi, forse perché sapeva di essere sempre vincente.

Will leggeva i movimenti della palla in aria e ne disegnava la parabola prima ancora che questa venisse lanciata. Ormai conosceva tutte le traiettorie possibili ed era capace di indovinare i suoi movimenti.

Quel giorno era particolarmente incazzato. Non che gli desse fastidio esserlo: in campo la rabbia, sempre se controllata, funzionava come una sorta di cannone ai piedi. Tuttavia, il fastidio gli attanagliava le budella: la sua memoria gli riproponeva continuamente la stessa identica immagine. Il bianco accecante di quella stanza d'ospedale, quell'eccesso di luce quando in realtà c'era soltanto oscurità. Quell'ordine maniacale e quella pulizia quando in realta c'era solo sporcizia di destino. I letti rifatti con le persone che vi dormivano, sfatte e disfatte. Il massimo dei controsensi. Sua madre, sempre sorridente, con una maschera di tristezza sul volto. Due occhi che erano sempre accesi stavano lì chiusi e spenti, come dei vecchi computer. Il suo corpo, sempre accogliente ed umido, con quell'odore di mamma di cui lui si era sempre nutrito, cibato, riempito, in quella stanza era freddo e secco, sfibrato, scolorito. Ed odorava di disinfettante, un odore che gli era entrato nel naso e che minacciava di uscire sotto forma di vomito da un momento all'altro.
Era incazzato.
Non doveva essere così.

Il campo si svuotò a poco a poco, senza che lui se ne accorgesse, e ben presto si ritrovò a fissare, instupidito, le linee colorate sul pavimento. Vai e gioca, si disse, e scese dalle tribune con uno sguardo spento negli occhi.
Salutò i suoi compagni come aveva sempre fatto (più di compagni non erano, perciò non si azzardava a chiamarli amici nè a comportarsi con loro come se lo fossero) e finse spudoratamente di stare bene. Sperava che il destino, o qualunque cosa fosse, lo vedesse da lassù. Voleva che vedesse la sua faccia felice, che si rendesse conto. Il destino doveva sapere che si era accanito contro la persona sbagliata; gli avrebbe sputato il suo sorriso in faccia tutti i benedetti giorni, ed avrebbe lottato nel silenzio della sua vita, e gliel'avrebbe fatta. Avrebbe ottenuto quello che voleva sotto il suo naso, senza che quel bastardo nemmeno se ne accorgesse.

"Muovete quel culo, devo dirvi una cosa importante!"
La voce di Max, l'allenatore, giunse loro attraverso la porta dello spogliatoio. Era una voce ruvida, come la sua natura. Era uno di quegli uomini che se ne sbattevano sempre e  comunque. Non per nulla era scapolo a trentacinque anni. Aveva dedicato la sua vita al basket e se ne era fregato di mogli o fidanzate, madri o padri vari. Lui era quel tipo di uomo incapace di filtrare i propri pensieri. Ti sbatteva davanti i suoi giudizi così come gli venivano in mente, e non stava nemmeno ad ascoltare la tua risposta. Will lo rispettava, ma non voleva finire come lui. La sua vita stava nella pallacanestro, ma nella sua vita non stava solo la pallacanestro.
Entrarono in campo seguiti dall'odore di scarpe e di casacche non troppo pulite. Un uomo, l'esatto contrario di Max, stava accanto al loro allenatore, per nulla impettito nel suo maglioncino di cashmere grigio e nei suoi pantaloni neri.
"Vi presento Leonard Ritt. È di New York ed è venuto qui ieri sera. Vi guarderà un po' giocare."
I ragazzi si guardarono, ma non dissero nulla. Will non era particolarmente turbato dalla presenza di Ritt. Non era la prima volta che qualcuno veniva a vederli giocare. D'altronde giocava nei Bruins, la squadra del più prestigioso college di Los Angeles. Tuttavia, quell'uomo gli sembrava diverso. Era vestito troppo bene, aveva l'aria di chi aveva vissuto al di sopra di tutti gli standard.
Il fischio di Max lo riportò alla realtà, e cominciarono l'allenamento.
Si allenarono mezz'ora in più del solito e Max ci diede dentro più del solito. Li massacrò, ma a Will non dispiaceva... le sue urla coprivano i suoi pensieri dolorosi, i rimbalzi del pallone si imponevano sul fiume di parole nella sua testa. Le scarpe stridevano, squittivano come topi e poi sbattevano violentemente. Tiro, tabellone, canestro. Passaggio, crossover, scarto, terzo tempo, tabellone e canestro. Tutto doveva finire con un canestro. Tutto doveva finire lì dentro, buco nero capace di ingoiare rabbia, delusione, paura, impazienza, ira. Tutto finiva con la palla in quella apertura nella rete.

Se ne tornò a casa con la borsa sulle spalle e l'entusiasmo sotto i piedi. Assieme all'acido lattico nel suo corpo regnava la preoccupazione. Camminava con la testa bassa e gli occhi asciutti, il dolore tra le sopracciglia. Aveva fame, ma l'idea di ciò che lo aspettava a casa gli faceva venire la nausea. Avrebbe mangiato da solo, nel silenzio sconfortante dell'appartamento. Suo padre e suo fratello erano in ospedale. Lui li avrebbe raggiunti dopo cena per dare loro il cambio.
A casa infilò il cibo nel microonde e si lasciò ipnotizzare dal giro del piatto. Buttò giù senza davvero mangiare, si riempì senza nutrirsi. Poi entrò in doccia, senza davvero lavarsi. Uscì che profumava di sandalo e muschio, ma si sentiva ancora sporco. Indossò una maglietta, dei jeans ed una felpa e si guardò allo specchio, sentendosi nudo.
Poi si chiuse la porta d'ingresso alle spalle e diede un giro di chiave. Una pesantezza alle gambe gli impedì per tutto il tragitto fino all'ospedale di sbrigarsi. Non sapeva se fosse dovuto alla stanchezza o alla tristezza.
Non voleva essere lì.
Non doveva essere lì.
Eppure varcò la soglia di quella maledetta porta d'ospedale.

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